.«La negatività della plastica diventa qualcosa di positivo, quando lavoro pezzi di bottiglie per trasformarli in fiori – racconta nella sua bottega Luciano Buggio, fra un colpo di pialla ad alcune cornici e uno sguardo fugace all’ingresso – il riciclo canonico, seppur positivo, spesso distrugge la memoria di un oggetto, il mio lavoro di “riciclatore” invece conserva gran parte dell’informazione di un manufatto, solo che ne mette in luce aspetti nascosti, in modo creativo, dando nuova vita a scarti».
Come è iniziato questo percorso? «Ho cominciato da bambino a Monfalcone, mio papà era falegname e devo aver ereditato da lui le mie capacità, non mi ha mai comprato giocattoli perché me li costruivo da solo, riciclando pezzettini di metallo che un artigiano meccanico buttava fuori dal suo laboratorio. Io li raccoglievo e li ricomponevo creando forme nuove. Poi a 11 anni sono venuto a Venezia perché segnalato da un’insegnante come bambino promettente, così ho potuto studiare al Convitto Nazionale Marco Foscarini e al Liceo Scientifico Benedetti, ma anche se mi sono laureato, dentro di me ho sempre voluto lavorare gli oggetti».
«Ero bravo in matematica, ma volevo studiare qualcosa di umanistico, ma all’epoca non avevo molte scelte coi percorsi universitari limitati dagli studi liceali, così mi iscrissi alla neonata facoltà di sociologia dell’università di Trento nel 1967 – spiega l’artigiano – la sociologia si occupava dell’uomo, che era quello che mi interessava e lì da grandi maestri, seppure agli antipodi come Francesco Alberoni e Mauro Rostagno, ho capito che il sistema in cui viviamo è totalmente disumano: produce lavoratori che vivono per comprare oggetti che puntualmente si rompono e che richiedono quasi tutti i loro soldi per essere riparati o sostituiti, in un perenne ciclo di insoddisfazione».
«Dopo la laurea, che era appena nata, non c’erano molti sbocchi, in Italia chi fosse o cosa facesse un sociologo era ancora un mistero, ma io laureato nel 1972 approfittai dell’equiparazione del titolo a economia e scienze politiche, così insegnai per qualche anno a ragioneria e a un istituto turistico a Venezia, ma non era quello che volevo – confessa Buggio – da bambino in colonia tutti i miei compagni sognavano di fare i macchinisti di treno e io il falegname, loro sono finiti tutti in banca mentre io il mio sogno l’ho realizzato». La sua storia di artigiano creativo iniziò così 50 anni fa prima ai Carmini e dal 1983 nella bottega di Calle de l’Ogio.
«Io lavoro con la spazzatura, con quello che gli altri buttano perché non ci trovano più niente di utile, parto dai materiali per tornare a dare loro dignità, anche stravolgendone le forme e l’aspetto iniziale. Così da comodini nascono pinocchi in legno e da lamine in metallo di motori elettrici animali e gondole – si confida – spesso mi abbandono, non penso troppo ma lascio che sia l’oggetto a esprimersi e a guidarmi, rinuncio all’ortodossia delle forme che siamo abituati a conoscere per abbracciare la creatività di trasformarle».
«C’è qualcosa a cui sono profondamente contrario nel nostro sistema, ovvero l’obsolescenza programmata, la odio davvero – si incupisce Buggio mentre spiega il suo pensiero – la follia è spendere maggiori energie e risorse per produrre qualcosa nato per rompersi, un processo molto più difficile che realizzare un oggetto che duri. Potremmo vivere tutti meglio lavorando di meno e dedicarci a cose più piacevoli, invece siamo occupati a guadagnare per ricomprare quello che puntualmente si rovina. Tipo i rasoi usa e getta, pensare a quanta energia di ricerca e tecnica sono servite per creare una lametta che alla terza rasatura è da buttare, è disarmante. Il mio lavoro si chiama riciclo ricreativo non a caso, perché mi diverto mentre lo faccio, ma do nuova forma e vita agli oggetti, andando contro alla logica industriale del prodotto in serie, riducendo contemporaneamente gli scarti, che altrimenti diventano inevitabilmente rifiuti».
«Dobbiamo tornare indietro, così non si può andare avanti – spiega l’artigiano – oppure faremo la fine dei Clayoquot, una tribù indiana fra le più operose a creare manufatti che però si annoiava terribilmente perché aveva di tutto, così quando non sapevano più che farsene, i pellerossa distruggevano ogni oggetto e ricominciavano dall’inizio, è proprio l’idea che c’è dietro all’obsolescenza programmata. Ci sono cose migliori da fare che correre dietro alle chimere».
«Ma cambiare è un problema, perché dobbiamo abbandonare non solo il modo in cui è costruita la nostra economia, ma anche come vediamo gli oggetti – racconta Buggio – il concetto di usa e getta oggi è insostenibile, ci sono applicazioni tecnologiche sorprendenti e teorie da scrivere, ma non ne vogliamo sapere di più. E’ come se quello che c’era da sapere l’avessimo scoperto e ci siamo adagiati. Mi occupo di fisica teorica per passione e se si vogliono scoprire cose nuove, bisogna mettere in dubbio tutto, anche l’utilizzo originario degli oggetti, con forme di ri-uso inedite. Si può fare a meno di tante cose, solo se si immaginano usi nuovi di quello che esiste già».
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