Il cambiamento climatico investe anche la finanza: a partire dagli anni 2000 sono nati strumenti di investimento per supportare iniziative a favore della riduzione delle emissioni di anidride carbonica e inquinanti, oltre al ripristino e tutela di aree a rischio naturale. Ma questo denaro ha davvero avuto un impatto o si tratta di una bolla speculativa? Una recente ricerca della professoressa Marcella Lucchetta, docente di economia dell’università Ca’ Foscari, mette l’accento su un dato allarmante: saremmo sotto al 2% per ogni abitante del mondo rispetto alle previsioni.
Il bicchiere non va visto solo mezzo vuoto: lo studio dimostra che gli investimenti ci sono e ci sono stati, ma prevalentemente nei Paesi sviluppati, soprattutto nel Nord Europa, paradossalmente laddove da anni si attuano politiche contro le emissioni, mentre negli Stati in via di sviluppo la finanza di questo tipo non attecchisce e continua l’uso indiscriminato di combustibili fossili. Il valore del 2% è una media: i paesi emergenti non sono in grado di investire capitali più alti, alterando non di poco la stima.
I climate bond o green bond, sono strumenti finanziari obbligazionali, ovvero titoli di credito a reddito fisso, che possono essere riscattati alla loro scadenza con un interesse preciso, non essendo quotati sul mercato azionario. La loro caratteristica principale è quella di avere specifici utilizzi per progetti e attività con effetto di miglioramento per il clima o l’ambiente. Per questa loro natura seguono dei principi fissati dall’ICMA, l’Associazione internazionale per il mercato di capitali, un’organizzazione che raggruppa istituzioni finanziarie di tutto il mondo.
I climate bond possono essere emessi sia dai governi che da aziende e banche internazionali, il soggetto giuridico che li offre sul mercato è responsabile della loro solvibilità, proprio come normali obbligazioni. Quello che è diverso sono gli specifici ambiti di finanziamento legati a questi prodotti finanziari, che hanno il vantaggio di poter sostenere in modo diretto progetti con ricadute collettive e comunitarie, dando la garanzia agli investitori di creare benessere per il pianeta, oltre che per le proprie tasche.
Il lavoro pubblicato sulla rivista internazionale Journal of Environmental Management, intitolato “Climate bonds: Are they invested efficiently?”, a cura della professoressa di Ca’ Foscari, è partito dall’analisi dell’obiettivo Net-Zero, definito dalle Nazioni Unite come il più prossimo allo 0 di emissioni nel minor tempo possibile, ma anche con la missione di assorbimento di CO2 in atmosfera. Tutto questo richiede grandi investimenti, ma purtroppo i climate bond hanno disatteso queste aspettative: «Sono stati presi in considerazione dati mondiali dal 2014 al 2022 – spiega la docente – dimostrando che per rispettare gli obiettivi ogni continente dovrebbe investire almeno il 2% in più pro capite ogni anno».
«Il paradosso – aggiunge – è che chi ha un maggior utilizzo di combustibile fossile per abitante ha anche il minor tasso di investimenti in climate bond. I Paesi ricchi stanno invertendo la tendenza verso le energie rinnovabili, ma gli Stati poveri sono ancora molto indietro, con il rischio dell’aumento demografico e della crescita economica che potrebbe portare a utilizzi ancora maggiori. La ricerca dimostra che per raggiungere gli obiettivi prefissati, la politica e l’economia devono avere chiari questi numeri per orientare le azioni, sarà quindi necessario mettere in campo strategie diverse per incentivare gli investimenti anche dove questi sono stati bassi perché il pianeta è uno solo e per tutti è lo stesso».
«I decisori spesso lanciano idee senza dei modelli di azione – spiega la professoressa Lucchetta – i Paesi in via di sviluppo sono proprio quelli che dovrebbero investire maggiormente per la salvaguardia dell’ambiente, ma non hanno i mezzi necessari, il vero cambiamento potrebbe essere spinto dalle grandi organizzazioni economiche internazionali che hanno i capitali per poter orientare gli investimenti, non bisogna fare però l’errore di svincolare lo strumento finanziario dallo scopo preciso per cui è nato, spesso infatti purtroppo i climate bond si sono trasformati in speculazione».
«Per poter fare questo la finanza e la politica devono collaborare con gli scienziati e gli esperti di economia del cambiamento climatico – continua la docente di Ca’ Foscari – non esistevano ricerche simili a quella che ho svolto io perché l’accesso ai dati è stato molto difficile e complesso. C’è bisogno quindi di maggiore trasparenza, tanto sui numeri che sul rapporto fra scienza ed economia e anche nella proposta di questi strumenti finanziari, se si vuole che davvero diventino motore del cambiamento a partire dalle banche che li hanno in portafoglio. Il clima sta cambiando e per adeguarci dovremmo farci trovare pronti, anche dal punto di vista finanziario».
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