Sta facendo i denti. Digerisce male. Ha le coliche. Riempire a piacere. Queste sono le premesse della mamma che viene in ambulatorio per capire come mai l’esserino tanto amato ha deciso di trasformarsi nel peggiore dei suoi incubi. Non dorme più!
Quali sono le cause delle infinite passeggiate lungo il corridoio, i canti e i balli notturni, le retrospettive in bianco e nero dei film di Folco Lulli e Amedeo Nazzari (esperienza personale di quando non c’era la pay tv)? E perché proprio quando stavo riprendendomi dal parto e stavo cominciando a capire cosa devo fare?
Perché è proprio l’epoca giusta! Fra i 6 e i 9 mesi il neonato comincia a identificarsi come persona distinta dalla madre. In fondo sono stati la stessa cosa per tutta la gravidanza. Alla nascita l’allattamento, la coccola, lo stare in braccio e tutti i comportamenti che le mamme fanno istintivamente non fanno che perpetuare questa beata condizione.
Però poi, io neonato, cresco e capisco: ci sono dei momenti in cui mi manca qualcosa. «Ehi, non facciamo scherzi, cos’è questa storia. Dov’è finito il pezzo che manca? Boh, proviamo a piangere, vediamo se succede qualcosa. Ah, bene, ecco il pezzo mancante: era andata di là un momento. Adesso è di nuovo qua. Bene, capito: se manca il pezzo, basta piangere ed arriva. Facile». E di notte? Di notte è la stessa storia… Ma arrivare diventa un più complicato.
Come dicono quelli che sanno: è arrivato il momento del distacco della diade madre-figlio, processo che prelude all’identificazione di sé e all’ingresso del papà – e poi dei fratelli, delle sorelle, dei nonni – nel quadro familiare. Il bambino si stacca dalla mamma e la mamma si stacca dal bambino, recuperando il suo ruolo di donna, lavoratrice, moglie. Bello, ma difficile da realizzare.
Da quando ho iniziato la professione ad oggi, l’età della prima maternità si è elevata sensibilmente, e non è difficile trovare primipare over 40. Sono anni di attese, di aspettative, di sogni, di idealizzazioni, che non contemplano le notti insonni e i pianti disperati alla notte. Men che meno l’ipotesi di non correre a placare il pianto in tempi record. Con buona pace dei metodi “infallibili” e del «Ti gà da farlo pianzer» delle nonne di un tempo.
La proposta di una terapia comportamentale, che tutti i pediatri fanno, si scontra con le borse sotto agli occhi e la faccia devastata dalla mancanza di sonno. La proposta di una terapia farmacologica invece, seppur lieve, evoca sensi di colpa nella mamma che pensa di essere un individuo abbietto che vuole drogare il figlio solo per il desiderio egoistico di un paio d’ore di sonno.
E così si continua con il lettone, inviso all’OMS – il cobedding è un fattore di rischio per la cosiddetta morte in culla, la SIDS, sindrome della morte improvvisa del lattante (Sudden Infant Death Syndrome) – ma che è stato assolutamente apprezzato dalle mie figlie e da legioni di altri bambini.
Meglio, però, parlarne con il/la pediatra di fiducia (che di sicuro ci è passato personalmente) non appena inizia il fenomeno: più si aspetta e più difficile poi è modificare il comportamento della famiglia. E soprattutto «glielo dò all’uomo nero che lo tiene un mese intero…» non mi è mai sembrata un ninna nanna rassicurante.
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