È un racconto intimo e sincero, che come un’altalena oscilla tra i ricordi del passato ed il presente. “Le altalene” è il nuovo romanzo-monologo di Mauro Corna, edito da Mondadori, che lo scrittore, scultore e alpinista, nato a Erto nel 1950, ha presentato alcuni giorni fa, in un incontro mediato dalla giornalista Monica Bertarelli, nella cornice montana del paese di Sappada. Proprio le altalene, simbolo della vita che va e torna, furono smantellate 60 anni fa “dall’acqua tragica” nel disastro del Vajont. Solo una rimase a dondolare: quella di Corona e dei suoi due fratelli, uno dei quali poi morì 18 enne in Germania. È sulla memoria del disastro del Vajont che si sviluppa il libro di Corona, nel ricordo di quando “la montagna non si reggeva più in piedi, ubriaca di uomini sapienti”. Quando il 9 ottobre del’63 il Toc cedette come un sasso buttato in un bicchiere “Piovve terra sulla terra, terra nell’acqua”. Morirono 2 mila anime, di cui 487 bambini: «Non fu una tragedia naturale come scrisse Giorgio Bocca. – denuncia Corona – E giustizia non fu fatta» come disse in faccia al Capo dello Stato Giorgio Napolitano rischiando il vilipendio. Il libro altro non è che la dichiarazione di chi è davvero Mauro Corona: «Sono memorie di quando ero ragazzino. Un’autobiografia della mia vita però messa in bocca ad un altro. – spiega – Questo libro è il mio testamento, racconta dalla mia infanzia fino ai giorni nostri e svela chi sono. – dichiara Corona – Per tutta la vita, forse per timidezza, ho sempre recitato la parte del coraggioso, duro, cafone e maleducato. Non che non lo sia stato, ma era per proteggermi e difendermi». Nel libro tanti sono i ricordi, i più molto dolorosi. Come quando la madre abbandonò lui ed i suoi fratelli per scappare dalle percosse del marito, un violento che non si curava dei figli. Fece ritorno solo quando Corona aveva oltre 13 anni. Un abbandono per cui il bambino non riuscì a piangere, e per questo più doloroso. Da sempre Corona si è considerato “orfano di genitori vivi”, aiutato solo dall’amore concreto dei nonni e dalla compagnia degli animali: «Questa cesoia, questa mancanza e assenza improvvisa, senza dire niente a nessuno, ci lasciò molto feriti. Questa è una delle parti più dolorose che oggi è memoria struggente e malinconia».
Corona è un uomo che ha vissuto molte vite. Legge, scrive, scolpisce e arrampica. «Ho vissuto il doppio di una persona normale perché dormo massimo tre ore a notte, dalle 5 alle 8 di mattina. Scrivo, leggo e guardo la tv. La mattina poi verso le 9 faccio una scalata o una camminata, poi mi metto a scolpire». Tra le sue più grandi passioni c’è l’arrampicata che lo ha portato a vivere avventure in America e Groenlandia, un amore nato da una paura: «L’arrampicata mi è servita per superare la paura del vuoto che avevo da piccolo, solo poi si è tramutata in competitività. La montagna che mi appartiene profondante è però diversa dall’andare ad arrampicare, per me significa camminare e magari arrivare su una cima». Poi parla dell’arrampicata su ghiaccio: «Mi piace perché è come un amore finito, tramontato, che si è sciolto e non esiste più. Quando passi in primavera non c’è più niente. Le cascate di ghiaccio sono allora l’effimero, le cose che passano». Per lui tutto è cultura, anche la natura: «Dipende dallo stato d’animo con cui ci mettiamo a guardare. Alcuni vedono la montagna come un mucchio di pietre, ma nella natura per i sognatori c’è poetica. Un cespuglio che intralcia il sentiero qualcuno lo vuole radere la suolo, qualcun altro lo sposta».
Nel libro non manca di sottolineare l’importanza della manualità, che un tempo per necessità era concreta e prosaica, mentre ora a raccontarla è poesia. «Non escludo si torni alla manualità in futuro» dice lo scrittore, che spera di tramandare ciò che ha imparato di pratico, proprio come lo scultore Augusto Murer fece con lui quando era giovane e che nel libro ricorda con affetto. La scultura del legno per lui è stata tra le prime fonti di guadagno: «Da tempo raccolgo gli scarti di legno degli altri scultori per scolpire gufi, civette e gnomi. – racconta – Provoco a mia volta scarti ma anche quei pochi cerco di rivalutarli creando dei piccoli ciondoli. Ma alla fine qualcosa la devi eliminare e a me dispiace sempre che qualcosa o qualcuno venga scartato». E annuncia già il prossimo libro che si chiamerà “Lunario sentimentale”: «Ripercorrerò i nomi dei mesi, così come sono chiamati in montagna: il mese della legna, della foglia, delle cataste, del letame. Ripasserò gli anni antichi dove c’era il fervore di saper fare le cose con le mani. Non sarà però un libro nostalgico – anticipa – ma una scheda tecnica dove le persone di Milano o Napoli possano scoprire come un tempo si viveva in montagna».
Nel libro racconta degli errori commessi, dei problemi con la giustizia e con l’alcol. L’età avanzata però per Corona ha portato consiglio: «Sono diventato un uomo essenziale. A 74 anni non perdo più tempo per sottrarlo alle cose che mi piace fare, ogni minuto è prezioso». D’altronde la vita è una sola: «La vita si scrive in brutta copia – dice prendendo a prestito le parole di Ernesto Sabato – Non c’è tempo di correggerla e ricopiarla in bella copia. Io dico che la nostra vita è come un romanzo. C’è chi ha cento pagine, chi ottanta, chi quaranta, e i bambini che muoiono hanno solo la copertina, ma ricordiamoci che non ci sarà la ristampa». Infine, cita un insegnamento ricevuto da piccolo che ricorda alla fine del libro: «Dove abitava la nonna materna a Erto c’era un’altalena. Quando mi dondolavo un cespuglio di rose selvatiche mi dava le sberle in faccia. Scesi per rompere la rosa ma una vecchia mi fermò e mi disse di immaginare che fossero carezze. – e conclude – Fu un insegnamento portentoso: non ruppi più la rosa. A volte pensiamo che certe cose siano offese, invece sono moniti per attenzionarci. L’insegnamento della vecchia mi è rimasto sempre a mente. Nella vita poi ho continuato a spezzare rami, ma ogni tanto me ne ricordo e cerco di fare meglio».
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