A sessant’anni dalla tragedia del Vajont, Marco Paolini non smette di interrogarsi sull’attualità di quella vicenda. Perché non c’è solo il dovere della memoria, ma la volontà che una storia fatta di montagne, di uomini e numeri, vada al di là della costruzione della diga, di tutte le cose taciute, dei segnali e dei rischi mal calcolati e ignorati, e delle aule del processo che seguì. Un segno nero nelle pagine della storia che serve per interrogarsi sulle sfide future: prima fra tutte la crisi climatica. Marco Paolini, attore, autore e regista che da anni racconta il cambiamento della società italiana, famoso per le sue narrazioni di forte impatto civile, torna a parlare dell’errore umano in “Storia del Vajont”, un libro pensato principalmente per i ragazzi, scritto insieme a Francesco Niccolini, che rilegge la tragedia con gli occhi del presente. Il libro è stato presentato venerdì 16 alla XXIX edizione di “Una Montagna di Libri” a Cortina d’Ampezzo nell’incontro “Vajont. La tragedia che ci parla ancora”, tenutosi all’Alexander Girardi Hall davanti a trecento persone, con il giornalista Venanzio Postiglione e il direttore della rassegna Francesco Chiamulera. Altra tappa sarà lunedì 26, alle ore 17.30, al Centro Culturale Candiani di Mestre, dove gli autori dialogheranno con Gianfranco Bettin e Michele Mognato.
Curve, un semaforo, una galleria e poi Lei. Così si arriva alla diga del Vajont, e così arrivano, una mattina di primavera, un padre e un figlio di appena 12 anni a quella che all’inizio degli anni ‘60 è stata la diga più alta del mondo e teatro di una delle più grandi tragedie italiane. Così comincia la nuova storia che Marco Paolini dedica al Vajont. Ma la vera protagonista di questo racconto è l’acqua, ciò che ne abbiamo fatto negli anni e ne stiamo facendo tutt’ora. I segni della crisi climatica infatti sono urgenti e gravi. È proprio toccando questi temi che Paolini insieme a Francesco Niccolini riscrive la storia nell’ottica del presente: «Ventisette anni fa lo spettacolo sul Vajont va in televisione ed è un successo. Oggi chi l’ha visto vuole farlo vedere alle nuove generazioni, così ho deciso di riscrivere la storia ambientandola nel nostro contesto contemporaneo. – spiega Paolini – Abbiamo cercato di scrivere un libro che aggiornasse il nostro sguardo su quello che è successo allora senza farlo in modo pomposo o didattico, ma cercando di incuriosire». Il primo a sentirsi coinvolto, fino a dimenticarsi del cellulare che usa costantemente, è proprio il giovane protagonista del libro a cui il padre, camminando insieme nei pressi del Vajont, racconta la storia del nonno che lavorò alla costruzione della diga, ancora oggi silenziosa testimone di chi ha perso tutto. Il ragazzo inizia a chiedere al padre più volte, ripetutamente e incredulo, come è possibile che sia accaduta una tale tragedia e resta affascinato dalla figura di Tina Merlin, la giornalista che come una cassandra lanciò l’allarme sull’esito del Vajont. «La sua figura resta affascinante proprio perché fu inascoltata. – sottolinea Paolini – A vent’anni dalla tragedia Merlin in un libro raccontò con rabbia quanto accaduto, non per dire che aveva ragione ma perché non è riuscita a fermare il disastro e a salvare quelle persone e quei luoghi in cui aveva fatto la lotta partigiana, e che sentiva a lei vicini».
«Quello che è successo era calcolabile, ma non immaginabile. – afferma Paolini – Gli studi fatti e le relazioni in mano agli uomini permettevano di ipotizzare un esito catastrofico, ma visto che non c’era una letteratura scientifica e nessuna esperienza umana precedente hanno improvvisato. Improvvisare senza immaginare però è fatale. – dice – Gran parte di quello che questa storia ci può ancora insegnare credo sia racchiuso tra quella piccola differenza tra calcolo ed immaginazione. Se non sviluppiamo la capacità di vedere le cose prima, quando si verificano è tardi per affrontarle». Molti furono infatti coloro a lanciare l’allarme, dicendo che non era l’ambiente giusto per costruire una diga, lì dove c’era una paleofrana, ma l’immensa barriera venne costruita ugualmente tra il 1957 e il 1960, per poi essere inaugurata nel 1961. Erano anni di svolta per l’Italia che sognava in grande: era il tempo delle Olimpiadi di Roma, della costruzione del grattacelo Pirelli a Milano, della Dolce vita romana. «Quando l’impresa Torno per conto della Sade arrivò nella valle del Vajont, c’era bisogno di acqua a fini idroelettrici. Era il momento in cui il Paese da agricolo stava diventando industriale» racconta Paolini. La diga venne aperta senza collaudo e quando la frana si staccò dal monte Toc, finendo nel bacino, non ci fu nulla da fare: 1910 furono i morti. «Ancora a distanza di 60 anni c’è chi sostiene sia stata una fatalità, che la natura è cattiva. – sottolinea Paolini – Vengono i brividi. Siamo il Paese d’Europa con più frane, pari al 70%».
Dopo la tragedia si è smesso di costruire dighe: «Se un domani dovessimo averne bisogno per le riserve d’acqua saremmo ostaggio della memoria del Vajont. La memoria però non deve essere una scusa per giustificare ogni nostro atteggiamento privo di coraggio. Non deve e non può essere utilitaristica, per lavarsi la coscienza. – e continua Paolini- Se un tempo era pensabile poi sacrificare una valle per un serbatoio d’acqua, oggi è più difficile immaginare una cosa del genere: la città ha bisogno della montagna perché è una valvola di sfogo». A distanza di due giorni dalla tragedia del Vajont, mentre tutti raccontavano l’orrore e contavano i morti che andavano giù lungo il Piave, la Merlin conclude un suo articolo dicendo: “oggi tuttavia non si può solo piangere, è tempo di imparare qualcosa”. «Noi da storie come queste impariamo solo catene di errori da non ripetere, ma non abbiamo la certezza di non sbagliare di nuovo. Dobbiamo esercitare fino infondo il ruolo degli attori e non degli spettatori. – dice l’attore che nei suoi spettacoli tocca le sfide del futuro attraverso l’aiuto dell’amico filosofo Telmo Pievani – Stiamo andando incontro alla distruzione della biodiversità, a pandemie e a conseguenze gravi sul clima. Non abbiamo nemmeno iniziato a vedere gli effetti del cambiamento climatico. Vaia è stato un assaggio, gli eventi estremi si moltiplicheranno. – e conclude – Nessuna generazione ha risolto i problemi di quella precedente. Non possiamo lasciare il compito alle nuove generazioni, non abbiamo fatto abbastanza ma possiamo ancora fare qualcosa».
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