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Case di comunità: medici di medicina generale dipendenti?

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Presa di posizione contro la rinuncia all’autonomia da parte di Giuseppe Palmisano, Presidente di FIMMG Veneto

Trasformare i medici di medicina generale in dipendenti delle case di comunità? «Si tratta di una stortura dove per avere il vantaggio di un presunto miglior governo territoriale si sacrifica l’autonomia dei professionisti e la qualità della cura personalizzata per i pazienti – spiega Giuseppe Palmisano, Segretario Regionale FIMMG Veneto, la Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale – oltretutto sarebbe anche discriminatorio perché coinvolgerebbe i nuovi assunti più giovani, lasciando ai colleghi più maturi la libera professione, creando un sistema ibrido con l’obiettivo principale di poter disporre di più medici, non di un servizio al cittadino migliore».

«La riorganizzazione della sanità con una riforma potrebbe essere un’opportunità – spiega il medico – ma l’ipotesi attuale, ovvero di una trasformazione graduale, rischia di non essere efficace per la medicina generale, la specialità deve rimanere unita altrimenti, anche se le case di comunità avranno solo medici dipendenti, come si gestiranno gli ambulatori sul territorio degli 11.400 sanitari che andranno in pensione entro il 2026? La questione è proprio garantire un presidio capillare sul territorio. Non siamo contrari all’idea che i medici di famiglia prestino la propria opera anche all’interno delle nuove strutture, ma la prima cosa da fare è potenziare le aggregazioni funzionali territoriali (AFT), ovvero l’insieme di medicine di gruppo e ambulatori singoli, dato che solo se queste funzionano a pieno regime, funzioneranno anche le case per la salute della comunità».

Il rapporto medico-paziente: una questione di fiducia

«Anche se non è previsto dalle convenzioni, ci sono tanti colleghi che scelgono di rispondere ai pazienti anche via email o chat – confida Palmisano – si tratta di una mole di lavoro enorme che consente però di raggiungere fette di popolazione che altrimenti non verrebbe in ambulatorio. Inoltre l’autonomia per i professionisti permette anche di essere flessibili nel fare attività di formazione. Ridurre i medici di medicina generale a subordinati fa perdere flessibilità e capacità di adattarsi agli assistiti. Il risultato finale è quindi quello di abbassare il livello di qualità percepita del servizi, rimuovendo la relazione che crea unicità nel rapporto medico-paziente e minando l’obbligo deontologico di applicare sempre la cura giusta al momento corretto per un preciso paziente».

«Trasformare così i medici di famiglia in dipendenti – sottolinea il segretario di FIMMG Veneto – non è la panacea di tutti i mali, visto che mina così la fiducia delle persone e la conoscenza profonda tra pazienti e medico. Infatti nelle nuove case di comunità i sanitari dovranno gestire le richieste senza uno storico consolidato di chi si trovano davanti e, al momento non ci sono modelli operativi definiti, col rischio di mandare i neolaureati allo sbaraglio. La sensazione è che ci sia soprattutto ansia di riempire le mura di questi nuovi presidi, che saranno ben 99 in Veneto, debuttando a giugno 2026. Siamo da tempo aperti alla discussione con la Regione senza però venire interpellati, privi di progettualità condivisa non si può neppure pensare di definire una turnazione per la medicina generale all’interno delle case di comunità».

Modello della case di comunità e medicina generale in Veneto

«Le aggregazioni funzionali territoriali sono un aspetto del nuovo assetto, la volontà della politica è riempirle, sfruttando le possibilità di realizzarle attraverso i fondi PNRR – chiarisce Palmisano – in questo processo di riorganizzazione ricadono anche le case di comunità, che in base alle dimensioni di suddivideranno tra hub e spoke. Secondo quanto previsto dal DM 77/2022, le prime serviranno un bacino di 40/50.000 persone con una presenza medica 24 ore su 24 e infermieristica 12h, 7 giorni su 7, con servizi diagnostici di base di continuità assistenziale, oltre a punto prelievi e consultorio. Le spoke saranno più piccole con servizi facoltativi e presenza medica e infermieristica 12h per 6 giorni».

«Come FIMMG Veneto pensiamo che queste realtà possano essere efficaci solo se integrate con la medicina generale – aggiunge – verosimilmente i professionisti potrebbero far parte di quelle più piccole salvaguardando l’attuale ruolo degli ambulatori periferici, con un congruo numero di personale di segreteria e infermieristico. Va mantenuta l’identità e il ruolo della medicina generale (che è definita dalla WONCA, l’Organizzazione mondiale dei medici di famiglia) tanto per i pazienti che per la categoria, visto anche il lavoro fatto dal Veneto per le medicine di gruppo integrate, il 23% dell’organizzazione, ovvero gruppi di professionisti che lavorano insieme servendo fino a 30.000 abitanti. Il neo di questa esperienza sono stati gli alti costi di gestione e la carenza di supporti di personale amministrativo, facendo tesoro e inglobandole nel nuovo assetto, si aiuterebbe a gestire la cronicità e i servizi domiciliari, ma serve più capitale umano che muri nuovi».

La proposta dei medici di medicina generale di FIMMG Veneto

«Come medici di famiglia dobbiamo considerare sempre l’unicità di chi si ha davanti come paziente – chiarisce il sanitario – proprio per far capire esattamente agli amministratori locali quali rischi si corrono con il passaggio al lavoro dipendente dei medici di famiglia abbiamo scritto loro per metterlo a conoscenza che abbiamo già un progetto pronto a essere discusso come sindacato: chiediamo che si possa dare respiro ai servizi territoriali senza fare un passo indietro sulla personalizzazione della cura e assistenza che comporterebbe la trasformazione del medico di famiglia in un lavoratore subordinato. Per questo chiediamo che per una riforma fortemente voluta da alcune Regioni con l’interlocuzione del Ministero della Salute, si avvii un confronto con i rappresentanti dei professionisti, cosa che non è ancora avvenuta».

«L’ipotesi in oggetto – conclude Palmisano – andrebbe a svantaggio di tutta la popolazione, soprattutto anziani e fragili, svuotando gli studi medici e facendo anche perdere il lavoro al personale non sanitario e vincolando alle case di comunità il lavoro del medico di famiglia, mettendo la salute dei pazienti in mano non a qualcuno che hanno scelto sulla base della fiducia ma del primo professionista di turno in servizio, in una struttura distante da casa. Il rischio quindi di abbassare la qualità del servizio, a fronte di una razionalizzazione è elevata. Sia chiaro, non siano contro il modello delle case di comunità a priori, ma queste per funzionare devono farlo a pieno regime, affiancate da una medicina che faccia da tramite fra loro e le case dei pazienti, altrimenti resteranno scatole vuote, perché più che edifici nuovi, serve nuovo capitale umano, non solo medici ma anche infermieri e personale di segreteria. Le nostre porte sono aperte al dialogo, speriamo di attivarlo quanto prima con la Regione».

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