Eredità e memoria del Vajont sono in mostra al Museo M9 – Museo del ‘900 di Mestre. A poco più di di sessant’anni di distanza, la tragedia del Vajont rimane uno dei più gravi disastri ambientali nella storia d’Italia causati dall’azione antropica, ancora oggi elemento vivo e pulsante nella memoria collettiva nazionale. Era il 9 ottobre 1963 quando una gigantesca onda di acqua e fango tre punte, tra i 50 e 60 milioni di metri cubi, provocata dall’enorme frana precipitata dal Monte Toc nel bacino idroelettrico del Vajont, distrusse otto frazioni, causando la morte di quasi 2000 abitanti. “CalamitA/À” è il progetto artistico esposto nel foyer del museo che trae origine dall’accaduto e dalla sua eredità culturale. Il progetto artistico di ricerca multidisciplinare di respiro internazionale, a cura di Gianpaolo Arena e Marina Caneve, integra la proposta di M9 con un’installazione fotografica site specific visibile gratuitamente fino all’8 settembre.
Nato nel 2013, il progetto “CalamitA/À” ha coinvolto più di cinquanta artisti e ricercatori importanti con il compito di lavorare sul territorio per affrontare il tema della rappresentazione della catastrofe attraverso progetti site specific a breve termine, oltre a promuovere riflessioni su argomenti quali la memoria, la trasformazione del paesaggio, lo sfruttamento delle risorse energetiche, la relazione tra uomo, natura e potere, l’emarginazione sociale delle minoranze e l’identità individuale e collettiva. Dal 2016 in poi, il focus del progetto si è concentrato nello sviluppare lavori a lungo termine di un gruppo ristretto di autori quali Gianpaolo Arena, Marina Caneve, Céline Clanet, François Deladerriere, Petra Stavast e Jan Stradtmann, che hanno svolto una residenza di una settimana nel territorio del Vajont. Nel 2023, grazie al supporto della Provincia di Treviso e alla collaborazione con il FAST – Foto Archivio Storico Trevigiano della Provincia, CalamitA/À è risultato vincitore del bando “Strategia Fotografia” del Ministero della Cultura, dando di fatto l’opportunità agli autori di concludere le loro ricerche. L’installazione effimera ideata per M9 è un invito ad entrare in contatto con le tematiche proposte dal progetto e ad approfondire i lavori degli artisti. In questa memoria storica e contemporaneo si incontrano, mettendo in dialogo una stretta selezione di fotografie realizzate nell’ultimo decennio insieme a foto d’epoca inedite, risalenti al 1963 e conservate dal FAST. Capisaldi che tengono insieme il progetto artistico sono arte e scienza, con un approccio più analitico e documentario e uno più libero e artistico. Strade di narrazione che concorrono a una visione globale non onnicomprensiva e che usano i territori per porsi delle domande. «Ogni volta sono stati fatti interventi diversi. Per noi è sempre stimolante creare un dibattito intorno ai questi temi. – spiega Arena – Il titolo del progetto esplicita due punti: sottolinea il luogo attrattivo delle dolomiti e l’interferenza antropica» ha detto, anticipando che la ricerca entro settembre darà alla luce un importante volume.
Con diversità di vedute ogni artista coinvolto nel progetto si è posto con metodi differenti, partendo dallo studio degli archivi, fino a campagne fotografiche sul territorio, per interpretare il paesaggio e le sue trasformazioni. Gianpaolo Arena, tra i suoi lavori, per entrare maggiormente all’interno della ricerca artistica ha fotografato i superstiti che in quei giorni hanno assistito alla tragedia, ritratti nel loro ambiente e messi in dialogo con dettagli evocativi, tra cui Marcello Mazzucco che per l’occasione ha lasciato la sua testimonianza a GV Ve-nice (leggi qui). Marina Caneve invece ha focalizzato la sua ricerca fotografica in particolare sulle contraddizioni, errori, incongruenze e discrepanze eclatanti su cui si fonda la narrazione e comunicazione della tragedia. A partire dalla emblematica prima pagina di un giornale d’epoca che titolava “Crolla la diga del Vajont”, ma la diga è ancora lì. «È la prima di tante false notizie che circolarono a seguito della tragedia. Una fake news che ancora oggi qualche politico sostiene, poco a conoscenza evidentemente della realtà dei fatti» sottolinea Caneve, che in altre foto invece mette le immagini volutamente fuori fuoco come fosse un errore di sintassi.
Se Céline Clanet ha fotografato cercando di assemblare un rebus, mettendo insieme le tracce del disastro, Petra Stavast ha invece concertato la sua attenzione sugli abitanti di Erto e Casso costretti ad equare la zona e ha indagato l’archivio del geologo Edoardo Semenza che scoprì la frana nell’estate del 1959 restando inascoltato dal padre Carlo, ingegnere progettista della diga. François Deladerriere poi, in un approccio poetico e metaforico, si è mossa in mezzo al silenzio, cercando di sentire l’eco della catastrofe passata, mentre Jan Stradtman si esprime attraverso la metafora e in una specifica foto ritrae la diga all’ultima luce del giorno per farla risaltare come una lama che taglia la gola. «È importante tenere acceso il dibattito attorno al tema Vajont, evento preciso e localizzato, che nello stesso tempo riguarda la stretta attualità. Quello che è stato continua a verificarsi nel nostro paese e altrove in aspetti che riguardano lo sfruttamento massivo del territorio» commentano i curatori, che da studenti di architettura sono diventati poi fotografi con il desiderio di fare qualcosa per la Valle del Vajont. «Accogliamo con entusiasmo CalamitA/À nei nostri spazi: un progetto potente e necessario, che tratta un capitolo importante nella storia del nostro Paese con nuove angolature di racconto. – commenta Serena Bertolucci, Direttrice di M9 – La storia del Vajont rappresenta un invito sempre attuale a riflettere sulle conseguenze dell’azione antropica sui luoghi che abitiamo: temi che il Museo da sempre esplora in diversi linguaggi».
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