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Alcolisti a Venezia: per uscirne serve accettare l’aiuto

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Antonio Asaro, Presidente di ACAT Venezia racconta come poter uscire dall’alcolismo

«Dall’alcolismo non si guarisce veramente – racconta Antonio Asaro, Presidente dell’Associazione dei Club Alcologici Territoriali (ACAT) di Venezia – ma dall’alcol si può uscire. Basta un goccio per ricominciare ed è peggio se succede dopo molti anni da quando si è smesso. Come si fa? Io ho raggiunto un equilibrio per cui anche se gli alcolici non sono scomparsi dal mercato, per me è come se non esistessero, ho deciso che non facciano più parte della mia vita, dopo 26 anni di sobrietà non ho intenzione di rovinare tutto, tanto che a casa mia non ho nemmeno l’aceto di vino per l’insalata. Non è un percorso facile e bisogna decidere di farsi aiutare, ma ha senso perdere tutto per un bicchiere? Per me e per tanti che sono passati dalla nostra associazione, non più».

«Va bandito dalle nostre giornate se vogliamo davvero ricominciare e godere di quello che la vita ha in serbo per noi – continua – meglio evitare anche similari, come la birra analcolica, perché potrebbero ricordarci le vecchie abitudini, il confine tra alcolico e analcolico può essere molto labile e trarre in tentazione. Come diceva Aldo Fontana, per anni responsabile del servizio di Riabilitazione e alcologia dell’ospedale Fatebenefratelli di Venezia e scomparso nel 2013, “per smettere di bere bisogna amarsi”, insomma occorre sviluppare un sano egoismo e tornare a volersi bene per uscirne davvero. Ho fatto suo questo prezioso insegnamento e cerco di tramandarlo anche agli altri».

ACAT Venezia una storia che parte da un reparto del Fatebenefratelli

«La nostra associazione nasce nel 1985 – racconta Asaro – in concomitanza con lo sviluppo del reparto dedicato alle cure della dipendenza da alcol all’Ospedale San Raffaele Arcangelo della famiglia dell’Ordine Religioso di San Giovanni di Dio Fatebenefratelli a Cannaregio. Il merito della fondazione della nostra realtà si deve al dottor Guido Saraceni, che intuì la necessità di una realtà come la nostra affianco al servizio ospedaliero. La nostra sede operativa resta l’ospedale dove abbiamo un ritrovo, che noi chiamiamo “club”, ogni mercoledì, mentre il giovedì siamo al Ser.D, di Venezia all’ex ospedale Giustinian e il venerdì siamo a Villa Groggia, sempre dalle 17 alle 18.30. Siamo tutti volontari e ci autososteniamo autotassandoci con 10€ al mese, molto meglio usarli per gli altri che al bar».

«Il nostro modello s’ispira al metodo definito dal professor Vladimir Hudolin, il medico croato a cui si devono i principi della attraverso le comunità terapeutiche – spiega il Presidente di ACAT Venezia – le sue teorie hanno permesso di eradicare la visione dell’alcolismo inteso solo come una malattia, a predisposizione genetica o individuale, verso uno stile di vita sbagliato influenzato da condizionamenti sociali e ambientali. La nostra è un’associazione senza scopo di lucro e fa parte dei presidi territoriali di ARCAT regionale e AICAT nazionale, siamo circa una trentina di associati, ma vorremmo crescere perché a Venezia il problema esiste. Per entrare in contatto con noi basta una telefonata o un colloquio, per capire se è necessario un ricovero o un passaggio in comunità terapeutica prima di entrare in uno dei nostri club, in base alla situazione».

A Venezia? Bevono sempre di più i giovani perché non hanno alternative

«Io abito in terraferma, ma il nostro osservatorio si limita al centro storico, anche se collaboriamo attivamente con l’ACAT di Mestre con sede a Marghera – spiega Asaro – qui da quello che possiamo vedere la situazione è abbastanza critica, soprattutto per quanto riguarda i più giovani, che bevono per darsi coraggio ma soprattutto per noia, non avendo alternative in una città che è sempre più a misura di turista e non di residente. Siamo stati ricevuti dal Comune di Venezia, ma non siamo ancora riusciti a limitare questo fenomeno, abbiamo anche proposto di ridurre i plateatici a quegli esercizi commerciali che offrono esclusivamente bevande alcoliche. Spesso quando andiamo a incontri con le famiglie i genitori minimizzano le abitudini dei figli, di sicuro il luogo comune del veneto gran bevitore non aiuta, come anche vedere fin da piccoli le tavole piene di alcolici e considerare l’alcol un alimento alla base della dieta con convinzioni come ad esempio che il vino faccia bene al cuore».

«Certo che se le proposte per i giovani sono solo happy hour, bacari e movida è inevitabile che bevano, soprattutto superalcolici – aggiunge – la ricetta che manca è più cultura, sport e musica. In Islanda con queste politiche sono passati da un tasso del 42% di alcolismo giovanile a un 5%, significa che non è impossibile. Per quanto riguarda chi si rivolge alla nostra associazione si tratta di persone in media sopra ai 45 anni, sia lavoratori che senza fissa dimora, i giovani fatichiamo ad attrarli, forse anche un po’ per vergogna dei loro genitori, ma noi continuiamo a incontrarli nelle scuole. Negli ultimi anni anche la componente femminile che si rivolge a noi è aumentata. Le donne hanno sempre bevuto, ma se una volta lo facevano di nascosto e in casa per paura del giudizio degli altri, oggi è sdoganato l’abuso di alcol anche per loro assieme ai maschi. Noi cerchiamo di “mettere a posto le persone” ma le ricadute ci sono, perché se poi continua a mancare loro casa e lavoro, senza corridoi per rientrare nella società le sirene dell’alcol sono difficili da non ascoltare».

Antonio Asaro riceve il riconoscimento per 25 anni senza alcol
Come smettere di bere alcol? E’ un lavoro di squadra

«Per smettere c’è solo un modo – spiega Asaro – bisogna riconoscere la propria condizione, avere il coraggio di chiedere aiuto e accettare di farsi curare. Ci vuole la volontà di uscirne, ricordo quando ero ricoverano io al Fatebenefratelli dal giardino sentivo la musica della Festa dell’Unità di Murano nell’aria, mentre dall’altra parte vedevo il cimitero. Fra le due alternative ho scelto di vivere ancora, da sobrio, nonostante una ricaduta, dopo 26 anni non mi sono mai pentito di questa scelta. La solitudine è un’aggravante per l’alcolismo, che diventa un compagno di vita a volte, ma mi bisogna affrontare i momenti duri facendosi forza, bere non allontana i problemi. E’ meglio rivolgersi alle persone piuttosto che alle sostanze».

«Anche per questo a chi viene nei nostri club consigliamo di portare famigliari o amici – conclude – perché anche loro vivono da vicino questa condizione e hanno difficoltà a rapportarsi con un alcolista e i suoi comportamenti. Ricordo un ragazzo con cui ero ricoverato, a cui ho insegnato a scrivere perché viveva in strada chiedendo l’elemosina e non aveva mai imparato, ce l’ha fatta senza il supporto di nessuno ed è stato un grande esempio per me, mi ha insegnato l’importanza di aiutare senza chiedere nulla in cambio, con questo spirito dal 2006 sono Presidente dell’associazione per ricambiare l’aiuto che ho ricevuto e dare l’esempio che se ce l’ho fatta io, che non ero solo come il mio compagno, chiunque lo voglia può farlo. La collaborazione con il Fatebenefratelli dura ormai dal 1985, il prossimo anno saranno 40 anni che festeggeremo assieme ricordando la strada fatta e la scelta di essere sobri grazie a cui ci siamo riconquistati la vita».

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