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Ca’ Foscari: l’acquaponica per coltivare pesce e vegetali

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Un esperimento per allevare orate e crescere salicornia risparmiando il 90% di acqua

Una delle più grandi sfide per il domani che impone il cambiamento climatico? Produrre cibo in modo sostenibile in condizioni diverse da quelle a cui ci ha abituato l’agricoltura e l’allevamento nel corso della moderna storia dell’uomo. «Le necessità del futuro ci imporranno di consumare meno risorse, garantendo un maggior benessere animale, usando la scienza per realizzare alimenti anche in zone in cui le condizioni non sono favorevoli», esordisce così il Professore di Ecologia Roberto Pastres, docente di Ca’ Foscari, responsabile del progetto BeBlue (Beyond Bluegrass) evoluzione del precedente Bluegrass, entrambi Interreg Italia-Slovenia, per dimostrare non solo la fattibilità tecnica di questa tecnologia ma anche la sua sostenibilità ambientale ed economica.

«Se c’è già letteratura scientifica sulle colture e l’allevamento ittico in acqua dolce – spiega il docente – il nostro impianto pilota si sta concentrando sull’acquaponica marina, abbiamo scelto di provare così a far crescere contemporaneamente salicornia e delle orate, queste ultime in sei mesi sono passate da 40 grammi a 250 e sono in perfetta salute. Abbiamo scelto due produzioni diffuse nelle zone costiere dell’Adriatico del Nord, per allungare la stagione della salicornia, che oggi importiamo inoltre da altri Paesi mediterranei come anche le orate. L’impianto, che si trova al Campus Scientifico di Mestre, non solo ci ha permesso di portare a termine con successo la sperimentazione, ma è la base per la simulazione digitale di siti produttivi molto più grandi per valutare il fabbisogno energetico e la sostenibilità ambientale ed economica di una produzione di questo tipo portata su larga scala».

Timelapse della crescita della salicornia
L’origine del progetto Ca’ Foscari: la ricerca sull’acquaponica del professor Pastres

«Questo progetto nasce da un percorso lungo – racconta il professore – mi sono occupato di acquacoltura sostenibile fin dai primi anni 2000, anche se di formazione sono un chimico industriale, mi sono avvicinato nel tempo ai sistemi biologici, facendo ricerca su sostenibilità e colture acquatiche, inizialmente studiando le più tradizionali forme d’idroponica, per poi passare alla co-produzione di specie vegetali e ittiche, con attenzione al ciclo della materia, nell’ottica di economia circolare. Nella prima incarnazione di questo progetto, che impiega esclusivamente fondi pubblici, “Bluegrass” abbiamo lavorato sulla fattibilità, mentre nella fase attuale “BeBlue”, abbiamo riproposto le precedenti attività ma ci siamo focalizzati sulle produzioni in acqua salata per verificare la fattibilità di colture con specie che abituate alla salinità in ottica di adattamento ai mutamenti climatici e alla necessità di risparmio idrico».

«La prospettiva infatti – continua – è che in alcune aree del mondo l’acqua dolce diventerà un bene sempre più scarso e quindi inaccessibile (e costoso), così questa seconda incarnazione del progetto è pensata per essere applicata in aree costiere, dove sia più diffuso il consumo ittico marino. In questo senso l’acquaponica si presenta come una soluzione sostenibile con una catena produttiva ottimale che metta in sinergia tanto la tecnologia di produzione che le forme di approvvigionamento energetico, inoltre solamente realizzando una filiera completa, dal produttore al consumatore, sarà possibile rendere questi prodotti accessibili al grande pubblico garantendo qualità, controlli e ottimizzazione delle risorse».

Il team di ricerca Italia-Slovenia con il professor Pastres al centro
Funzionamento di un impianto di produzione ittica e vegetale di acquaponica

«Il nostro sistema lavora a singolo ciclo, combinando in modo controllato l’allevamento dei pesci con la coltura delle piante usando la stessa acqua, che viene filtrata e processata e messa in ricircolo, quindi fornisce un ambiente più controllato rispetto ai contesti del campo o del mare – spiega il professore – la criticità principale è bilanciare le biomasse che si formano nei due comparti comunicanti, infatti troppo pesce non permetterebbe alle piante di assimilare le sostanze nutritive necessarie a “purificare” l’acqua da azoto e fosforo, nei passaggi fra i due ambienti l’acqua mantiene una qualità costante. Impianti di dimensione crescente, potrebbero essere dotati anche di correttori di acidità e avere circuiti in cui i fluidi non sono comunicanti al 100%, ci sono esperimenti in questo senso, come quelli dei colleghi sloveni, in cui pesci di acqua dolce convivono con colture di fragole e pomodori, il tutto senza alcun ricorso a diserbanti o antiparassitari».

«Aumentando la complessità si potrebbe pensare di allevare specie diverse di pesce e piante contemporaneamente – prosegue – gestendo la raccolta delle sostanze e organiche. Abbiamo scelto l’orata come specie perché meno delicata di altre, l’idea è nata da precedenti esperimenti con salicornia e cefali, ma potremmo arrivare anche al branzino, molto più delicato di queste altre specie. Questa produzione permetterebbe un miglioramento del benessere animale, limitando la densità di esemplari per metro cubo, passando dai 25-40 chili degli allevamenti a 5-6, diminuendo la mortalità e rendendo sostenibile una produzione minore grazie a un uso sapiente dell’energia e alla complementarietà delle colture vegetali, lavorando così anche sull’impatto ambientale grazie alla preferenza di energie da fonti rinnovabili rispetto alle fossili, visto che in rapporta all’allevamento tradizionale delle trote, un impianto di questo tipo avrebbe un consumo di 2,5 volte maggiore a fronte di una riduzione del 90% del fabbisogno di ricambio di acqua, con un obiettivo prossimo a zero spreco».

L’acquaponica è una tecnologia che si presta all’uso di massa?

«L’obiettivo principale della nostra ricerca in Ca’ Foscari è quello di dimostrare la fattibilità e la scalabilità di una soluzione di questo tipo attraverso una modellazione di un sistema gemello digitale – illustra l’accademico – valutando un metodo di produzione circolare che assicuri di ottenere cibo con meno acqua in condizioni ambientali con temperature crescenti e meno favorevoli ai metodi tradizionali. Il nodo principale sono i costi, se si contiene quello energetico allora ecco che una produzione di questo tipo può essere vantaggiosa anche dal punto di vista economico diventando così un’ipotesi più che valida. In Europa non è ancora molto diffusa ma in USA, Australia e fra gli Stati del Golfo Persico, ci sono già realtà simili operative, soprattutto laddove il costo dei vegetali è molto alto. Il nostro scopo è diffondere queste tecnologie alternative portandole all’attenzione della collettività, abbiamo già delle aziende come interlocutori e grazie alla nostra simulazione digitale siamo in grado di fare diverse ipotesi su varie dimensioni produttive».

«In prospettiva ai grandi cambiamenti che richiederà il nostro sistema produttivo – conclude – l’acquaponica potrebbe essere realmente una delle strade da percorrere, la prodizione di cibo fuori suolo è uno scenario concreto, sia perché i fertilizzanti a base di fosforo che si usano in agricoltura sono una risorsa esauribile, visto che il minerale si ricava da rocce e che i terreni sono sempre più sterili per l‘eccessivo sfruttamento, sia perché un ambiente molto urbanizzato come il nostro, con un progressivo svuotamento di alcune strutture architettoniche, potrebbe permettere di riconvertire spazi, anche urbani, a produzione alimentare senza emissioni e quindi altamente sostenibili, visto che sono necessari solo acqua (poca) e corrente elettrica. La sfida quindi è mettere queste soluzioni a sistema e produrre energia rinnovabile, per mantenere, o forse anche migliorare, produzioni alimentari di qualità».

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