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“Campo di battaglia”, contro la follia della guerra

Nel film di Gianni Amelio nessuna scena di combattimento della Grande Guerra: protagonisti sono, grazie ai medici Giulio (Alessandro Borghi) e Stefano (Gabriel Montesi), il conflitto tra il bene e il male e una riflessione continua sul senso di responsabilità

Meglio tornare al fronte o farsi mutilare per tornare a casa? Invalidi o tumefatti ma con la certezza di restare vivi? È su questa domanda che si basa il film “Campo di battaglia” di Gianni Amelio, il primo film italiano in concorso presentato sabato 31 alla 81. Mostra Internazionale di Arte Cinematografica al Lido di Venezia e da giovedì 5 distribuito da 01 Distribution nelle sale. «Un film non di guerra ma sulla guerra» ha voluto sottolineare il regista, che ha scritto la sceneggiatura insieme ad Alberto Taraglio, ispirandosi al libro “La sfida” di Carlo Patriarca, una via di mezzo tra un saggio e un romanzo. I luoghi del conflitto sono appena evocati. Non ci sono immagini di guerra, solo all’inizio un soldato nel buio fruga in una montagna di cadaveri formata dai propri commilitoni dopo un combattimento.

L’ospedale, il nuovo “fronte”

Per il resto il film, collocato sul finire della Prima Guerra Mondiale, è interamente ambientato in un ospedale militare. Lì due ufficiali medici, amici d’infanzia, Stefano (Gabriel Montesi) e Giulio (Alessandro Borghi)lavorano in quello che è il vero nuovo “fronte” di tutta la storia. Proprio nell’ospedale ogni giorno giungono come feriti uomini valorosi che hanno affrontato il nemico, ma anche coloro che arrivano ad auto lesionarsi o fingersi pazzi per non tornare a combattere. Stefano, uomo tutto d’un pezzo, convinto che andare in guerra sia un dovere, oltre a fare il medico prende le vesti di uno sbirro e, ossessionato da questi che considera perdenti, li rimanda subito al fronte, anche se ormai troppo deboli per affrontare il nemico. L’alternativa è la denuncia al tribunale militare per tradimento e fucilazione diretta. Giulio, apparentemente più comprensivo e tollerante, prova invece compassione per tutti quei poveri disgraziati arrivati in ospedale che parlano dialetti che lui non comprende.  In scena, infatti, viene presentata una babele di lingue, dal torinese al siciliano stretti, tanto che è stato necessario sottotitolare i dialoghi.

"Qui non muore nessuno"

Giulio, che prova a fermare la guerra a modo suo, di questi soldati ne coglie il terrore e il desiderio di scappare dalla follia del conflitto. Il film ruota quindi attorno alla battaglia personale di Giulio conto la guerra: riuscirà a mantenere la promessa che fa ai malati “qui non muore nessuno”? Un soldato calabrese in fin di vita, pennellato da Amelio, dice che per quello che vede vorrebbe bestemmiare, ma poi teneramente si domanda se uno che bestemmia lo seppelliscano nel campo santo, mostrando tutta la precarietà e la debolezza dei sentimenti umani. Intanto molti malati si aggravano misteriosamente. Qualcuno sta provocando di proposito complicazioni alle loro ferite perché vengano rimandati a casa, anche storpi, con arti che erano sani amputati con metodi poco ortodossi pur di non farli tornare in trincea. Nell’ospedale c’è dunque un sabotatore, di cui Anna (Federica Rosellini), amica di entrambi i medici dai tempi dell’università, mancata dottoressa rassegnatasi a fare la volontaria alla Croce Rossa, è la prima a sospettare, a cui è affidato un ruolo chiave. Lei infatti, il personaggio che più cambia, sarà il “ponte dello sguardo”, che ricorda quanto sia importante prendere posizione e agire. La guerra però e la paura della morte in campo di battaglia non è l’unica tragedia: avanza infatti l’influenza spagnola, che miete tante vittime quante il conflitto, rievocando un passato ancora attuale.

 

Assuefatti alla guerra

«A differenza degli altri registi non penso, ma sento le cose nelle viscere e cambio le scene all’ultimo, ogni mattina. – dice Gianni Amelio – Senza immagini di guerra il film aumenta la forza emotiva. Queste infatti sono usurate e oggi paradossalmente sembrano irreali. Siamo abituati a vedere la tv che tutti i giorni ci manda bombardamenti, feriti e morti. Non parlo solo di Gaza e dell’Ucraina, ma anche di immagini come l’affondamento di un gommone. A casa, a differenza del cinema, con la tv aperta mentre si fa la vita di tutti i giorni, si diventa terribilmente assuefatti alla guerra e al suo concetto. Subiamo le emozioni invece che parteciparvi. Questo è un film che non va visto in tv ma in una sala cinematografica».

Un film che divide ideologicamente

La pellicola sviscera la follia nella follia che la guerra è capace di innescare, domandandosi se è meglio salvare la vita o l’integrità fisica. «Il film – sottolinea Alessandro Borghi – mi ha ricordato la bellezza del fare cinema. È una riflessione sul bene e sul male, sul senso di responsabilità. Il mio personaggio è presentato come il buono del film, ma alla fine non si sa se è veramente così e ci chiediamo se ha fatto azioni tutte giuste. Lui segue il suo istinto facendo cose che io non avrei mai fatto». Borghi, infatti, resta ancora oggi perplesso sul muoversi del suo personaggio, e forse nella resa attoriale questo lo si percepisce, a differenza di Montesi la cui interpretazione pare più convinta e solida. Il film infatti divide ideologicamente, mettendo in scena la relatività del concetto di giusto e sbagliato. Un vero dilemma morale che ragiona su cosa è etico o no, portando lo spettatore ad interrogarsi su quale sia la scelta giusta e da che parte stare. Si riuscirà a dare una risposta?

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