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CIA Veneto: i motivi dietro la protesta degli agricoltori

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Il Presidente di CIA Veneto Passarini spiega da dove nascono le proteste degli agricoltori

«Per spiegare le manifestazioni dell’ultimo periodo bisogna partire da un presupposto – spiega Gianmichele Passarini, Presidente di CIA Veneto – gli agricoltori sono in scesi in piazza per manifestare un disagio, determinato dal fatto che oggi l’agricoltura sta patendo e subendo vicissitudini geopolitiche mondiali che incidono sull’aumento dei costi e sull’inflazione, con una perdita di reddito significativa. Basti pensare che passato ai tempi della mezzadria, che tanto abbiamo combattuto come modello da superare, ai contadini andava dal 20 al 25% del valore della vendita dei prodotti, oggi arriviamo sì e no all’8-10%».

«Le mobilitazioni recenti sono a rischio strumentalizzazione – continua – da chi cerca voti più che il benessere del comparto. Come associazioni di categoria stiamo sostenendo che il problema per la produzione italiana esiste e che non siamo contro l’intera Unione Europea ma nutriamo forti perplessità sull’azione della Commissione che ha creato la Politica Agricola Comune (PAC), fortemente condiziona dal Green New Deal e dal programma Farm to Fork, una serie di politiche con nobili intenti ma antecedenti a quello successo negli ultimi anni con la pandemia da Covid-19 e recentemente dalla guerra in Ucraina e le problematiche nel Mar Rosso, fattori che impattano sulle economie nazionali. Il problema non sono gli obiettivi, ma i tempi e il contesto che vengono imposti».

Il contrasto con le regole imposte dall’Europa

«Sarebbe ingiusto dare la colpa all’Europa, perché questa non ha legiferato in modo autonomo – spiega Passarini – il PAC è stato approvato e votato dai nostri rappresentanti, ma quello che è mancato e che servirebbe è una maggior coscienza e comprensione di quali conseguenze economiche comportano determinate scelte che hanno un impatto diretto sul sistema produttivo comunitario. Scegliere di investire su accordi bilaterali, come ad esempio il CETA per il libero scambio fra Canada e Europa o il patto con il Mercosur (l’organizzazione che raggruppa Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay), favorendo l’ingresso di prodotti da sistemi agricoli a basso valore o, peggio, che sfruttano la manodopera, rischiano di essere un boomerang perché i prodotti esteri vengono favoriti con una concorrenza sleale».

«Per questo riteniamo che le questioni debbano essere valutate assieme alle associazioni di categoria degli agricoltori europei – aggiunge – calcolando gli impatti economici che le scelte dell’Europa potrebbero avere sul sistema. I nostri strumenti normativi ed economico-finanziari dovrebbero assicurare il miglior risultato possibile, garantendo nella reciprocità delle importazioni una adeguata protezione della produzione UE rispetto all’estero. Siamo favorevoli all’approccio green, ma deve essere pragmatico, le nostre imprese sono pronte, basti pensare alla conversione al fotovoltaico, ma se ci sono margini di crescita, altrimenti non possiamo permetterci il default per la decrescita felice, pagandola tutta sulla nostra pelle».

Una questione di filiera e d’impatto del cambiamento climatico

«L’agricoltura italiana, deve recuperare un ruolo che le va riconosciuto a livello nazionale, tanto di onori che di oneri – puntualizza Passarini – il PAC è una questione, ma non è l’unica, perché proprio sul fronte interno manca un riconoscimento di prodotto a livello di filiera. O la pensiamo semplicemente come uno strumento per tagliere i costi oppure iniziamo a vederla con un approccio maturo, inserendo degli strumenti di programmazione per tarare le necessità produttive, con contratti che mettano insieme le esigenze di produttori e di industria della trasformazione attraverso una pianificazione anche di interventi economici. Gli strumenti normativi sono necessari: la concorrenza sleale estera e la posizione dominante dell’industria che costringe gli agricoltori a vendere quando il raccolto ormai è a rischio di perdita senza trattative rispetto allo stoccaggio, vanno affrontate».

«Lo stato non può intervenire in un mercato libero – prosegue – ma può fare molto per migliorare i rapporti nella filiera definendone i contratti, perché se le produzioni DOC e DOP sono virtuose, la stessa cosa non si può sempre dire per le quelle di largo consumo. Anche se la grande distribuzione ha riconosciuto qualcosa all’agricoltura con l’aumento dei propri prezzi, conoscendo il fabbisogno delle imprese, il pubblico può determinare risorse ad hoc per gli accordi di filiera, supportandoli. Questo alla luce anche delle sfide che ci vedono impegnati per cui oggi le produzioni biologiche faticano sempre di più e quelle ordinarie, nonostante la filosofia della lotta integrata, hanno il divieto di usare prodotti per affrontare alcune fitopatie. Se si aggiunge la scarsità di acqua, una grande riforma agraria appare sempre più necessaria per programmare il futuro al 2030-2050».

Posizione di CIA e opportunità che si potrebbero cogliere

«Come CIA il nostro mestiere è stare attenti alle questioni che interessano l’agricoltura – conclude Passarini – per questo ci eravamo mossi ben prima delle ultime proteste, con una mobilitazione già lo scorso 26 ottobre 2023 a Roma che ha coinvolto 3000 agricoltori per esprimere un forte disagio. Il Governo sembra aver preso coscienza del tema, ad esempio con la deroga per il 2024 dell‘obbligo di mantenere il 4% di terreni incolti, è un segnale anche se in concreto non risolve le difficoltà. L’unica soluzione è sedersi attorno a un tavolo e scrivere una nuova riforma agricola che mantenga l’agricoltura e la sua funzione di motore per l’economia circolare, lasciando da parte questioni come carne sintetica e farina di grilli».

«Se perdiamo le nostre eccellenze agricole – aggiunge – erodiamo una fonte non solo di reddito ma anche un presidio sul territorio e una conseguente tenuta per la sicurezza idrogeologica e boschiva. Per questo dovremmo perseguire un approccio gestionale e non solo conservativo. Un esempio? Le foreste vanno messe a reddito, abbiamo ettari interi di bosco che potremmo gestire in modo integrato, come fanno già in Austria peraltro, producendo materia prima per un sistema circolare che dia anche energia e assorba CO2, ma servono investimenti e bisogna credere nel rilancio dell’intero settore agricolo. La sostenibilità passa anche da qui, ma serve una visione, condivisa da tutti, tenendo conto che il nostro sistema produttivo esporta anche in tutto il mondo. Altrimenti il rischio è una progressiva contrazione e perdita di un patrimonio che, oltre che economico, è anche culturale».

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