Passione, determinazione e un amore sconfinato per il pianoforte hanno portato la pianista, compositrice e filosofa della musica veneziana Letizia Michielon a raggiungere traguardi sempre più importanti. La musicista mercoledì 29, alle ore 18, sarà infatti alla Sala Esedra del Museo teatrale alla Scala di Milano per presentare, all’interno della rassegna “Dischi e tasti” curata da Luca Ciammarughi, il terzo volume che ha inciso inerente il progetto dedicato all’opera integrale pianistica di Chopin, prodotto dall’etichetta Limen Music, con cui sta curando anche il progetto integrale sull’opera di Beethoven. Il nuovo volume su Chopin è ora su tutte le piattaforme online in Dolby Atmos, tecnologia audio surround che consente un ascolto tridimensionale. Con l’occasione verrà inoltre presentato l’intero progetto chopiniano, per cui Michielon per ogni cd ha curato anche un saggio (pubblicato sul blog di Limen Music) in cui affianca la musica di Chopin a grandi scrittori come Emily Dickinson e Leopardi, autori con cui ha riscontrato un’affinità poetica. L’ultimo saggio invece, dal titolo “Collier di mani”, è dedicato a Cristina Campo, che ha rivolto molte riflessioni a Chopin (leggi qui). «Ho scelto dei poeti lirici perché il segreto della musica di Chopin è una mescolanza di pensiero e sensibilità» spiega Michielon.
Letizia ha ascoltato musica da sempre. Suo papà Lino, oltre ad essere ingegnere, era fisarmonicista del Caffè Pedrocchi a Padova. «Il mio primo strumento è stata proprio una fisarmonica con cui a tre anni volevo imitare mio padre – ricorda – Poi però ho scoperto il suono del pianoforte che mi immagava. A 5 anni chiesi di iniziare e non mi sono più fermata». Entrambi i suoi genitori amavano la musica e l’hanno sempre sostenuta: papà in particolare le ha insegnato come avvicinare la musica con metodo e rigore e il suo giudizio era sempre prezioso. I suoi studi si sono svolti quasi tutti privatamente, poi a 13 anni sotto la guida del maestro Eugenio Bagnoli ha capito che il pianoforte sarebbe stato il suo mestiere e si è diplomata al Conservatorio per poi conseguire un ulteriore diploma in Composizione. «Agli inizi da giovane salivo sul palco con molta incoscienza, poi man mano però le tensioni aumentavano. Ora con la maturità ho trovato un equilibro e ho capito che se porto attenzione sull’opera divento anche io uno strumento con cui lasciar scorrere e trasmettere l’energia che ricevo». Poi spiega cosa rappresenta per lei la musica: «È una guida in un percorso verso la bellezza. Una porta di accesso che ci fa superare i nostri limiti e ci lancia verso altre dimensioni».
I compositori a cui si sente più legata sono Chopin e Beethoven: «Chopin è l’artista che con la sua vena nostalgica ho sentito più affine fin da subito. Di solito passano due anni prima che incida le opere di Chopin. Richiedono infatti un lavoro di lima e finezza per poter dire qualcosa di nuovo rispetto le precedenti incisioni». Una delle composizioni di Chopin a lei più cara è la “Ballata in fa minore Opera 52”: «Qui raggiunge l’apice della capacità compositiva, un pezzo pieno di contrasti che racchiude tutta la filosofia nichilista chopiniana. Nel finale della ballata, realizzato con armonie dissonanti, sembra di entrare in un destino apocalittico e nell’informe. Allo stesso tempo però – continua Michielon – il brano racchiude un disperato grido d’amore e di speranza che vince il limite fisico, affidandosi alla forza eterna del ricordo e dell’utopia». L’altro brano a lei caro è “l’Opera 27 n.2”: «Un notturno che rappresenta uno dei pochi momenti di felicità totale che Chopin ha vissuto». Beethoven era invece un musicista umanista, era appassionato della cultura mitteleuropea che a Letizia Michielon interessa molto, essendosi poi laureata in Filosofia e avendo poi svolto altri due dottorati con tesi su Goethe e sul Beethoven di Adorno. «Beethoven fa del suo linguaggio musicale quasi un pensiero filosofico» dice Michielon. Tra le sue opere preferite c’è “l’Opera 106”, l’ultima sonata dove è come se la musica nella dimensione del trascendente: «Il tema è basato su una terza e sembra uno studio sulla Trinità. Quest’opera è quasi un esperimento per la Messa solenne».
Seppur in modo minore rispetto all’impegno pianistico, anche quello compositivo per Letizia è un aspetto importante. Realizza composizioni di musica classica per pianoforte ma anche per ensemble da camera, come il brano che le è stato commissionato per il prossimo anno dalla New York University in occasione dell’anniversario del compositore italiano Luciano Berio, per cui terrà anche un concerto e una conferenza. L’idea per lei è come una scintilla che sorge dagli stimoli culturali. Per comporre i suoi pezzi generalmente Letizia si ispira alla filosofia o alla letteratura, ma anche alla pittura. «Sono sinestetica, per me il suono è colore» spiega. Tra i poeti, Emily Dickinson è quella che l’ha più ispirata, mentre molte sono le suggestioni che ha ricevuto dalla pittura di Mondrian. Tanti poi gli spunti giunti da parte di filosofi come Paltone, Kant, Adorno e Benjamin. «Il profilo dell’interprete e del compositore deve avere una transdisciplinarietà. – sostiene – Il segreto è tradurre un linguaggio nell’altro». Poi paragona il processo di elaborazione di un brano al lavoro dell’architetto: «Se do al pezzo forma e proporzioni la stesura è abbastanza rapida». Una delle sue composizioni a lei più care si chiama “Spira mirabilis”, un brano per ensemble da camera per flauto, clarinetto, pianoforte e percussioni, che prende appunto ispirazione dalla legge della spirale logaritmica che si trova spesso in natura, per cui ha previsto anche una componente performativa: i performer si muovono sul palcoscenico secondo movimenti che descrivono a loro volta una spira mirabilis. Letizia crea anche brani che poi suona lei stessa al pianoforte, anche se ama di più interpretare brani di altri in quanto ogni volta è una sfida che richiede tantissimo lavoro: «Devi sapere quello che gli altri hanno già detto degli autori per trovare qualcosa di nuovo. Per fortuna compositori come Chopin e Beethoven hanno uno spessore tale che si trova sempre qualcosa che ancora non è stato detto».
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