Ce lo dicono da molto tempo: la popolazione italiana sta invecchiando velocemente. Alcuni medici talvolta considerano questo evento come una conquista della scienza, come se sopravvivere alla statistica della durata della vita fosse un traguardo irrinunciabile. Molti studi clinici enfatizzano il guadagno anche minimo del restare in vita, ma pochi di essi analizzano gli aspetti legati alla qualità della vita, in termini di autonomia, che la vecchiaia ci riserva.
Talora si discute, più o meno animatamente, nel datare l’inizio della terza età – per alcuni ormai l’età di partenza è diventato il 70esimo anno – ma è ormai è chiaro a tutti che la cosa importante non è quanto viviamo, ma come viviamo, se, cioè, riusciamo a mantenere il più possibile la nostra capacità di interagire con il mondo. La perdita della memoria, che caratterizza in maniera dirompente il comune denominatore della maggior parte della malattie neurodegenerative del cervello, demenza di Alzheimer compresa, rappresenta di certo l’elemento più importante di questa interazione.
La demenza rappresenta un fenomeno clinico e sociale che dopo i 65 anni colpisce tra l’1 e il 5% della popolazione; il dato aumenta progressivamente con l’età fino a raggiungere il 30% della popolazione dopo gli 80 anni. Alcune forme di deterioramento cognitivo, però, possono iniziare anche prima dei 50 anni.
In qualche caso questa malattia affonda un’esistenza lanciata verso il successo, come accade ad esempio alla protagonista del film “Still Alice” del 2014 con Julianne Moore come protagonista. Come spesso accade in queste situazioni, la perdita della capacità cognitiva ha un impatto devastante sugli affetti: non c’è pace né comprensione in quei figli che non sono più riconosciuti dai propri genitori. Anzi, spesso c’è rabbia e qualche volta livore nei confronti del genitore che riconosce nel figlio il coniuge ormai morto da molto tempo.
I figli, insomma, fanno un’enorme fatica a comprendere che si è rotto il meccanismo del riconoscimento visivo. E la rabbia si mescola a un tentativo di riportare alla ragione qualcosa che alla ragione non appartiene più.
Da giovani il ricordo associativo – un numero di telefono, il nome di una persona che non vediamo da tempo, il nome di un farmaco assunto il mese scorso – galoppa molto velocemente nel tempo di un nanosecondo. Ad un certo punto, in qualche caso, cominciamo a lamentare un “inceppamento” di questo meccanismo.
Questa fatica di rievocazione peggiora e provoca inevitabilmente un ripiegamento su se stessi, come una sorta di addomesticamento delle nostre capacità cognitive. Possiamo smarrirci in luoghi che abbiamo frequentato tante volte, ma in cui oggi ci sentiamo confusi e disorientati come dei bambini piccoli lasciati soli.
Poi ci sono i gesti di tutti i giorni che non riusciamo più a compiere come prima, come se tutto facesse parte di un terribile episodio dissociativo che complica i rapporti interpersonali e parentali.
Il delirio dissociativo è delicatamente predetto nel momento in cui un padre si rivolge al figlio: «Se un giorno mi vedrai vecchio, se mi sporco quando mangio e non riesco a vestirmi… Abbi pazienza, ricorda il tempo che ho trascorso ad insegnartelo. Se quando parlo con te ripeto sempre le stesse cose, non mi interrompere… Ascoltami; quando eri piccolo dovevo raccontarti ogni sera la stessa storia finché non ti addormentavi. Quando non voglio lavarmi, non biasimarmi e non farmi vergognare… Ricordati quando dovevo correrti dietro inventando delle scuse perché non volevi fare il bagno».
Quando il ricordo non è più così elastico e ha smesso di galoppare, l’unica cosa che rimane da fare è prenderci per mano e camminare insieme, rispettando il silenzio dell’altro.
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