Logo Crux

don Cadamuro: «Il carcere sia un luogo dove ricostruirsi»

don Massimo Cadamuro, cappellano della Casa circondariale di Santa Maria Maggiore a Venezia, in occasione dell’arrivo in carcere della luce della speranza accesa per il Giubileo, racconta le sfide e i problemi di chi vive ogni giorno dietro le sbarre

L’invito è quello di prendere parte alla Messa della domenica in carcere e, al termine della celebrazione, di fermarsi per un caffè e quattro chiacchiere insieme ai detenuti. A rivolgerlo a piccoli gruppi e realtà parrocchiali locali è don Massimo Cadamuro, cappellano della Casa circondariale di Santa Maria Maggiore a Venezia, che ormai da qualche mese ha preso in mano il testimone del compianto don Antonio Biancotto, nel tempo divenuto un vero e proprio punto di riferimento per i ristretti della città d’acqua. Qualche giorno fa la lampada in cui arde la “luce della speranza”, accesa a Roma per il Giubileo 2025, ha varcato le porte del carcere veneziano, accompagnata da una rappresentanza di cappellani del Triveneto, da alcuni volontari del territorio e da mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, delegato dei vescovi del Triveneto per la Pastorale dei detenuti. «Bisogna lavorare sul versante delle proposte di lavoro, strettamente connesse al tema dell’abitazione. Un luogo in cui poter ripartire e ricostruirsi una vita con gradualità. Dopo tre o quattro anni trascorsi tra le mura del carcere – osserva don Cadamuro – ci si ritrova anche a dover ricreare quelle relazioni e quei rapporti che si sono interrotti». La questione del dopo-pena e degli spazi abitativi per chi si riappropria della sua libertà, per il cappellano sono questioni centrali, sulle quali la Caritas diocesana sta lavorando.

Al lavoro per nuovi spazi abitativi

L’obiettivo è quello di dare la possibilità a chi esce dal carcere di avere a disposizione delle strutture di riferimento in cui poter risiedere temporaneamente, fintanto che non verrà trovata una sistemazione definitiva. E proprio in tal senso va il progetto legato alle Muneghette, a Castello, per quanto riguarda le donne, mentre per gli uomini si stanno portando avanti degli interventi di restauro a Campalto, nella Casa Mons. Vianello, che già in passato era stata destinata proprio agli ex ristretti. «Si tratta di lavori importanti, ci vorranno mesi per portarli a termine, tanto che nel mentre si pensava di utilizzare Casa Papa Giovanni XXIII, in fondamenta Santa Chiara, luogo che Caritas già utilizzava per le donne uscite dal carcere della Giudecca, come soluzione provvisoria, fintanto che la struttura a Campalto non verrà sistemata». I tempi di realizzazione sono ancora incerti, ma le intenzioni sembrano essere quelle di ultimare il progetto entro l’anno. Tante le competenze presenti in carcere: dall’idraulico all’operaio, fino al fabbro. «Ma se non viene garantita un’abitazione, cosa succede? Una volta scontata la pena, i detenuti rischiano di tornare nel vecchio brutto giro e nelle compagnie di prima, oppure di finire in strada. A quel punto è chiaro che le possibilità di essere assunti svaniscono. Il Patriarcato si sta spendendo molto, tuttavia senza abitazione è tutto molto più complicato».

 

 

Seguendo il tema del Giubileo

«Ai detenuti noi diamo una speranza? Questa la provocazione suggerita dal tema del Giubileo in corso, che ci rimanda ad una questione essenziale, ovvero garantire una speranza alle persone. Sia dentro che fuori dalle mura detentive. Per noi cristiani – riflette don Cadamuro – prendere sul serio questa tematica vuol dire arrivare anche a cancellare dal nostro vocabolario determinate espressioni, come “buttiamo via la chiave”. A quel punto allora do speranza e fiducia a queste persone, anche nel rifarsi una vita». Uno degli effetti «più devastanti» della detenzione è veder precipitare i detenuti «dentro ad una solitudine terribile. Se vogliamo dare corpo alla speranza, affinché non si limiti a rimanere soltanto uno slogan, dobbiamo tutti noi farci collaboratori di essa». Il che significa, per i volontari del carcere in primis, trattare i ristretti «come “persone” e non come un reato che cammina: significa liberarsi dai pregiudizi. E così facendo è possibile compiere dei percorsi, dei cammini di crescita che sono fondamentali. Quando ad una persona viene tolta la speranza, si pone su un piano inclinato che lo porta facilmente a compiere un crimine. Al contrario ho constatato che il suo riaccendersi, anche in senso religioso, consente di vivere dei percorsi di vera resurrezione. Il carcere, come dice la Costituzione, deve essere un luogo di rieducazione e non di punizione».

 

 

 

Problema di sovraffollamento

Nella Casa circondariale di Santa Maria Maggiore le difficoltà più evidenti riguardano il sovraffollamento. «Fino a qualche giorno fa i ristretti erano circa 260, a fronte di 154 posti disponibili. Vi transitano ogni anno circa 700 persone: un “mondo”. Quando si è in troppi, – prosegue il cappellano – tutto diventa più complicato, senza contare che questa problematica si coniuga con una carenza di personale, sia in termini di agenti della polizia penitenziaria che di operatori». Altro tasto dolente, la promiscuità: don Cadamuro si riferisce alla convivenza fra ristretti privi di problematiche collegate a tossicodipendenza o fattori psichiatrici e quelli che invece ne sono soggetti. «Ad un tossicodipendente o ad un paziente psichiatrico non può essere fatto fare lo stesso percorso di un detenuto che dipendenze non ne ha. Un mix che diventa esplosivo per tutti. Bisognerebbe che il governo portasse avanti i decreti attuativi della riforma e desse la possibilità di creare comunità di pena alternative, che sono già previste». In altre parole, far sì che un tossicodipendente sconti la propria pena in una comunità che nel contempo gli garantisca anche un percorso di cura. «La stessa cosa andrebbe fatta per un soggetto psichiatrico». Culture, stili di vita e Paesi di provenienza differenti fanno il resto, portando a situazioni spesso di non facile gestione. «Ci vuole un’opera di mediazione culturale, in modo da far convivere persone di provenienze diverse e che non conoscono la nostra lingua». Importante poi, per don Cadamuro, sarebbe che ci fosse, fra le mura del carcere, un’attenzione nei confronti di chi professa la religione islamica, alla luce di un 70% di detenuti musulmani extra comunitari.«Il ruolo dei volontari è fondamentale, decisivo. Non solo a livello di aiuti essenziali (come la distribuzione dei vestiti), ma anche umanamente parlando. Si approcciano ai ristretti in modo gratuito, contrariamente a chi all’interno della Casa circondariale lavora. E proprio questo aspetto della gratuità i detenuti lo percepiscono. Il fatto di sentirsi trattati come persone accende in loro la speranza. In carcere si recano anche degli insegnanti: è importante che, chi non lo conosce, impari l’italiano».

Argomenti correlati: , , ,
Autore:

Iscriviti a CRUX e non perderti nessun aggiornamento, ti invieremo 1 volta a settimana i nuovi articoli!