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Giorgio Andreotta Calò: «La scultura è lingua viva»

Fino al 4 marzo è possibile vistare a Ca’ Pesaro la mostra dell’artista veneziano di fama internazionale Giorgio Andreotta Calò, in un dialogo a tu per tu con la scultura di Martini

Nel marzo 1944 Arturo Martini comincia a scrivere il suo celebre testo “Scrittura lingua morta” che verrà pubblicato nel 1945. È proprio prendendo spunto da questo scritto sull’incapacità della scultura di essere viva e universale che prende nome la mostra di Giorgio Andreotta Calò nelle Sale Dom Périgonn della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro a Venezia. “Scultura lingua morta” è la mostra visitabile fino al 4 marzo, a cura della direttrice del museo Elisabetta Barisoni, con cui Ca’ Pesaro intende ancora una volta valorizzare le collezioni del museo inserendole in mostre dedicate alle indagini contemporanee, come sta facendo anche per la mostra di Roberto Matta (leggi qui). Nella prima sala ad accogliere i visitatori prende subito voce l’inedito dialogo tra Giorgio Andreotta Calò e Arturo Martini attraverso il linguaggio e le riflessioni sulla scultura. La scultura “Testa di Medusa” in legno del 1929 di Martini, appartenente alle collezioni del museo, è posta infatti in stretto dialogo con la scultura bronzea con fusione a cera persa “Medusa”, realizzata nel biennio 2020-2022 da Andreatta Colò.

Dialogo tra due massimi della scultura

Nel 1945, nei terribili anni della Seconda Guerra Mondiale, Martini attacca apertamente la scultura, negandone la possibilità di essere salvifica. Dalle riflessioni di Martini, autore fondante del gruppo di artisti che ai primi del ’900 si erano riuniti intorno al primo Direttore di Ca’ Pesaro Nino Barbantini e rappresentato nelle raccolte civiche conservate dalla Galleria, prende avvio un dialogo – quasi un corpo a corpo – con Giorgio Andreotta Calò (Venezia, 1979), artista veneziano annoverato tra le voci più autorevoli dell’arte italiana a livello internazionale, e la città di Venezia, considerata nella sua plasticità e fisicità. Andreotta Calò attualmente vive e lavora tra l’Italia e l’Olanda. Ha studiato scultura all’Accademia di Belle Arti di Venezia e alla Kunsthochschule di Berlino. Nel 2011 il suo lavoro è presentato alla 54. Biennale diretta da Bice Curiger, mentre nel 2012 vince il Premio Italia per l’arte contemporanea promosso dal MAXXI di Roma. Ancora nel 2016 stabilisce il suo studio a Venezia dove nel 2017 è tra i tre artisti invitati a rappresentare l’Italia nel padiglione curato da Cecilia Alemani alla 57. Biennale e con il progetto Anastasis vince il bando Italian Council (2017). Proprio dalla contemporanea voce autorevole di Andreotta Calò, che dal 2021 insegna anche all’Accademia di Belle Arti nel dipartimento di Scultura, nel diretto confronto e stretto dialogo con Martini si percepisce come il linguaggio usato da entrambi gli artisti, sia un mezzo di espressione che non è mai stato così vivo e presente. «Nonostante la mia opera sia in bronzo, ci tengo a dire che l’opera è partita da una matrice in legno. –  dice Andreotta Calò, sottolineando la morbidezza e naturalezza della creazione – La Medusa è così proprio per la sua prossimità all’acqua, il legno usato per farla è stato magnato e corroso dall’acqua».

Il viaggio di una scultura ancora viva

 La piccola ma significativa esposizione propone un viaggio nella “lingua morta”, ma che in realtà più viva non si può, attraverso le opere più significative di Andreotta Calò realizzate in oltre vent’anni di lavoro, tra cui le celebri “Clessidre”, le “Pinne Nobilis”, i “Carotaggi”, e appunto le “Meduse”, soggetto molto caro all’artista. Oltre all’opera posta su piedistallo della Medusa messa in inedito dialogo con la Testa di Medusa di Martini, a far parte della mostra, esposta nello scalone del Museo ad accogliere i visitatori del primo piano è la grande Medusa entrata nella collezione civica di Ca’ Pesaro grazie al Piano per l’Arte Contemporanea del 2021, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Nella prima sala dell’esposizione colpisce anche appeso al muro “Icarus”, un ramo in argento realizzato con microfusione diretta e bozzoli naturali pronti a schiudersi per davvero. «Tra me e Martini è trascorso un tempo in cui sono accaduti diversi sconvolgimenti in quella che è la grammatica, il lessico e la storia dell’arte che ha aperto anche nuove possibilità. – spiega Andreotta Calò – Questa mostra cerca di fare il punto a livello personale rispetto alla ricerca e al luogo, che deve continuare ad essere un riferimento per quanto riguarda la scultura. Qui in museo sono conservate collezioni incredibili. La mostra non si prefigge di colmare il gap temporale ma di riattivare un discorso su questa sfera della rappresentazione dell’arte» L’esposizione, più che un’antologica, è lo step di un percorso durato 10 anni: «La prima mostra che riprendeva lo scritto di Martini la feci nel 2014 in Olanda ad Amsterdam. Lì esposi per la prima volta le meduse, i carotaggi e la forma della conchiglia. Poi a Londra e Parigi feci altre edizioni sviluppando questi temi. Alcune forme sono state presentate in queste mostre in una loro lenta metamorfosi e sviluppo». L’opera della clessidra è quella che ha Calò sviluppato di più: «È un lavoro che ho iniziato a fare quando ero studente in Accademia, e la cui forma si è evoluta in vent’anni. Prima la realizzavo in legno, poi quando mi sono trasferito in Olanda, grazie ad una borsa di studio, ho potuto replicarla in bronzo a cera persa, materiale incorruttibile da cui è nata la forma palindroma. – e continua il celebre artista – Le clessidre sono lavoro concettuali oltre che formali, racchiudono il concetto che governa la realizzazione stessa dell’opera» Parla anche dell’esperienza alla Biennale nel 2017: «Un progetto faticoso che non so se ripeterei, ma d’altronde anche questo momento, questa mostra, è irripetibile. Da quell’esperienza cerco di mantenere la tensione provata, che porto in ogni mostra che faccio».

Il rapporto con il plasticismo veneziano

Insieme alle opere, con trasferimenti di inchiostro a parete sono esposti i materiali che per primi hanno attivato il dialogo dell’artista con il Palazzo sul Canal Grande: la seconda sala della mostra vive nei disegni e nei carotaggi, esito delle indagini eseguite dai professionisti dei Lavori Pubblici del Comune di Venezia sulla facciata di Ca’ Pesaro. ll rapporto tra la produzione plastica contemporanea e la città di Venezia, rappresentato dalla sensibilità di Calò cui si affiancano le collezioni di scultura di Ca’ Pesaro e la monumentale architettura del Palazzo, si arricchisce delle suggestioni ispirate dai preziosi documenti provenienti dall’Archivio Storico della Galleria. Sono tracce di campagne fotografiche condotte sulle collezioni, di cambiamenti e riflessioni sull’allestimento delle opere, sull’architettura e sulla facciata, trame di una storia che si intreccia con la produzione di Calò attraverso lo sguardo trasversale e dialogico del collettivo Ipercubo. La produzione plastica, ma anche la museografia, l’architettura e il restauro manutentivo, le indagini statiche e scientifiche sui materiali e sul palazzo, diventano tutti elementi di una lingua viva che testimonia il dialogo ininterrotto tra Venezia, i protagonisti del suo glorioso passato e gli interpreti del suo articolato presente. «Nella mia scultura – sottolinea infine Calò – c’è sempre un rapporto diretto con la città».

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