
“Il folle di Dio alla fine del mondo” di Javier Cercas (Guanda) è un’opera “senza finzione” che interroga il cuore dell’uomo. Quando il Vaticano sceglie un dichiarato ateo e anticlericale per accompagnare Papa Francesco in Mongolia e scriverne liberamente, nasce un’opera letteraria senza precedenti: un incontro straordinario tra due mondi apparentemente inconciliabili, uniti dalla ricerca di risposte alle domande più profonde dell’esistenza. Cosa succede dunque quando un ateo ostinato, razionalista e anticlericale accetta l’invito a viaggiare con Papa Francesco fino alla Mongolia, alla “fine del mondo”? Nasce un’opera sorprendente, intima, a tratti ironica ma sempre profondamente umana. In questo romanzo-saggio-reportage – un’opera definita “inafferrabile” nei generi e insieme memorabile – Cercas non nasconde il suo scetticismo né la sua distanza dalla fede; eppure è proprio questa distanza a rendere la sua ricerca più autentica. Cercas si mette nei panni di un figlio che desidera rispondere alla domanda struggente posta dalla madre novantaduenne: “Quando morirò, rivedrò mio marito?”. Una domanda che – ammette lo stesso autore – nessuno aveva mai avuto il coraggio di rivolgere direttamente al Papa. Il cuore del libro è infatti il dialogo tra Cercas e Papa Francesco, definito “il folle di Dio”, proprio come amava chiamarsi San Francesco d’Assisi. Il pontefice argentino si mostra in tutta la sua umanità e profondità spirituale, affrontando senza esitazioni il tema della resurrezione e della vita eterna. La risposta del Pontefice, descritta dall’autore come “fulminante”, e la reazione della madre di Cercas formano una delle scene più toccanti dell’opera. A quel punto il libro assume una valenza teologica e spirituale potente, perché riesce a rendere viva la questione centrale del cristianesimo non con argomentazioni dogmatiche, ma attraverso una testimonianza personale e vissuta. Cercas non si converte – almeno non lo dichiara – ma qualcosa cambia. Lo si percepisce tra le righe, nel tono, nella meraviglia quasi infantile con cui descrive l’incontro con un uomo che “dalla periferia guarda il mondo” e non smette di credere nella potenza della speranza e del perdono.
Il viaggio in Mongolia si trasforma così in un pellegrinaggio dell’anima. L’autore ascolta cardinali, missionari, semplici fedeli. Osserva, annota, si confronta. Con un linguaggio ironico e brillante, tipico del suo stile, ma anche con un rispetto profondo per ciò che incontra. Ci sono pagine di riflessione sulla fragilità della Chiesa, sugli errori e le contraddizioni, ma anche sulla insostituibile funzione nel custodire la memoria, l’umanità e la tensione verso l’oltre. Tuttavia, l’opera è molto più di una semplice domanda sulla resurrezione, è un’esplorazione profonda della figura controversa di Jorge Bergoglio, un Papa “anticlericale” che lotta contro il clericalismo, un uomo che la critica descrive come “straordinario e comune” allo stesso tempo. È anche una riflessione sul ruolo della Chiesa nel XXI secolo, sui suoi scandali e sulle sue sfide. Sorprendentemente, nonostante il tema apparentemente serioso, “Il folle di Dio alla fine del mondo” è pervaso di umorismo. Lo stesso Pontefice “rivendica il senso dell’umorismo”, come ricorda Cercas, e questa leggerezza permea tutto il testo, rendendolo accessibile e godibile anche per i lettori meno interessati alle questioni teologiche. La critica internazionale ha accolto l’opera con entusiasmo. Il giornalista spagnolo Sergi Pàmies l’ha definita “intensa e stravagante, ma anche memorabile”, mentre José María Pozuelo Yvancos su ABC parla di “la più entusiasta agiografia che di un Papa potrebbe essere stata scritta da nessuno”. Il volume è stato pubblicato simultaneamente in Italia, Spagna e America Latina, ed è già stato tradotto in più di trenta lingue. “Il folle di Dio alla fine del mondo” è un’opera necessaria. Perché mostra che il cristianesimo non teme il confronto con il dubbio, anzi: si nutre proprio di domande sincere. È una lettura che invita al dialogo, che apre orizzonti. E che, nella voce di un figlio inquieto, restituisce al lettore una delle certezze più luminose del Vangelo: “Con la resurrezione di Cristo è stato piantato il seme della resurrezione di tutta l’umanità”.
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