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“Il folle di Dio”: l’umanità di Papa Francesco raccontata dall’ateo Cercas

La recensione del libro del mese di maggio a cura di Gianluca Callegari e Michela Fabbro, librai della Libreria Studium di Venezia

“Il folle di Dio alla fine del mondo” di Javier Cercas (Guanda) è un’opera “senza finzione” che interroga il cuore dell’uomo. Quando il Vaticano sceglie un dichiarato ateo e anticlericale per accompagnare Papa Francesco in Mongolia e scriverne liberamente, nasce un’opera letteraria senza precedenti: un incontro straordinario tra due mondi apparentemente inconciliabili, uniti dalla ricerca di risposte alle domande più profonde dell’esistenza. Cosa succede dunque quando un ateo ostinato, razionalista e anticlericale accetta l’invito a viaggiare con Papa Francesco fino alla Mongolia, alla “fine del mondo”? Nasce un’opera sorprendente, intima, a tratti ironica ma sempre profondamente umana. In questo romanzo-saggio-reportage – un’opera definita “inafferrabile” nei generi e insieme memorabile – Cercas non nasconde il suo scetticismo né la sua distanza dalla fede; eppure è proprio questa distanza a rendere la sua ricerca più autentica. Cercas si mette nei panni di un figlio che desidera rispondere alla domanda struggente posta dalla madre novantaduenne: “Quando morirò, rivedrò mio marito?”. Una domanda che – ammette lo stesso autore – nessuno aveva mai avuto il coraggio di rivolgere direttamente al Papa. Il cuore del libro è infatti il dialogo tra Cercas e Papa Francesco, definito “il folle di Dio”, proprio come amava chiamarsi San Francesco d’Assisi. Il pontefice argentino si mostra in tutta la sua umanità e profondità spirituale, affrontando senza esitazioni il tema della resurrezione e della vita eterna. La risposta del Pontefice, descritta dall’autore come “fulminante”, e la reazione della madre di Cercas formano una delle scene più toccanti dell’opera. A quel punto il libro assume una valenza teologica e spirituale potente, perché riesce a rendere viva la questione centrale del cristianesimo non con argomentazioni dogmatiche, ma attraverso una testimonianza personale e vissuta. Cercas non si converte – almeno non lo dichiara – ma qualcosa cambia. Lo si percepisce tra le righe, nel tono, nella meraviglia quasi infantile con cui descrive l’incontro con un uomo che “dalla periferia guarda il mondo” e non smette di credere nella potenza della speranza e del perdono.

Una lettura che apre orizzonti

Il viaggio in Mongolia si trasforma così in un pellegrinaggio dell’anima. L’autore ascolta cardinali, missionari, semplici fedeli. Osserva, annota, si confronta. Con un linguaggio ironico e brillante, tipico del suo stile, ma anche con un rispetto profondo per ciò che incontra. Ci sono pagine di riflessione sulla fragilità della Chiesa, sugli errori e le contraddizioni, ma anche sulla insostituibile funzione nel custodire la memoria, l’umanità e la tensione verso l’oltre. Tuttavia, l’opera è molto più di una semplice domanda sulla resurrezione, è un’esplorazione profonda della figura controversa di Jorge Bergoglio, un Papa “anticlericale” che lotta contro il clericalismo, un uomo che la critica descrive come “straordinario e comune” allo stesso tempo. È anche una riflessione sul ruolo della Chiesa nel XXI secolo, sui suoi scandali e sulle sue sfide. Sorprendentemente, nonostante il tema apparentemente serioso, “Il folle di Dio alla fine del mondo” è pervaso di umorismo. Lo stesso Pontefice “rivendica il senso dell’umorismo”, come ricorda Cercas, e questa leggerezza permea tutto il testo, rendendolo accessibile e godibile anche per i lettori meno interessati alle questioni teologiche. La critica internazionale ha accolto l’opera con entusiasmo. Il giornalista spagnolo Sergi Pàmies l’ha definita “intensa e stravagante, ma anche memorabile”, mentre José María Pozuelo Yvancos su ABC parla di “la più entusiasta agiografia che di un Papa potrebbe essere stata scritta da nessuno”. Il volume è stato pubblicato simultaneamente in Italia, Spagna e America Latina, ed è già stato tradotto in più di trenta lingue. “Il folle di Dio alla fine del mondo” è un’opera necessaria. Perché mostra che il cristianesimo non teme il confronto con il dubbio, anzi: si nutre proprio di domande sincere. È una lettura che invita al dialogo, che apre orizzonti. E che, nella voce di un figlio inquieto, restituisce al lettore una delle certezze più luminose del Vangelo: “Con la resurrezione di Cristo è stato piantato il seme della resurrezione di tutta l’umanità”.

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