E’ possibile indossare un capo ricondizionato ed essere comunque di tendenza? «Certo, se la trasformazione aggiunge valore a quell’abito» – spiega la professoressa di storia e teoria della moda dello Iuav di Venezia Alessandra Vaccari – la trasformazione o riuso creativo, chiamata “upcycling” è qualcosa di più del semplice riciclo di un prodotto, si tratta di creare abbigliamento nuovo partendo dall’esistente oppure usare scarti di tessuto come le cimose* e vestiti difettati».
Invece di partire da un foglio bianco, la progettazione di un vestito in upcycling può seguire diversi metodi, introducendo la creatività nella trasformazione più che nell’immaginazione pura. Si può usare un approccio decorativo, quando si personalizza un capo per nasconderne un difetto, oppure decostruttivo, rifacendosi alla letteratura, considerando un abito come frutto di una scelta di materiali simile alla logica di un vocabolario, come nel caso dei celebri maglioni di Martin Margiela, realizzati a partire da calzini o le borse Raeburn da paracaduti militari; fino a una costruzione modulare, in cui le modifiche di un indumento seguono una stagionalità, allungandone e accorciandone le forme secondo necessità.
«Nella moda non esiste una certificazione di prodotto “upcycled”, come per i beni riciclati e il cibo – spiega la professoressa – nonostante il consumatore sia sempre più attento a questi aspetti, è un tema in cui dovrebbero entrare soggetti come l’Unione Europea per definire una normativa unica, ma finché la percentuale di produzione è bassa non c’è troppa pressione sulla politica».
«Questo non significa però che non esistano piccole realtà molto virtuose, spesso guidate da designer indipendenti che hanno abbracciato questa filosofia produttiva – continua Vaccari – proprio per le dimensioni ridotte di buona parte dei produttori, i costi elevati della certificazione rischierebbero di comprometterne l’attività, siccome si tratta di un processo di evoluzione culturale, non solo stilistica, buona parte delle azioni di cambiamento sono affidate al marketing e alla comunicazione».
Sarà questa la strada per la moda di domani? «Difficile prevederlo, credo però che si stia dando un bel segnale per un cambio di mentalità, iniziative come quelle di Eco-age di Livia Firth, agenzia specializzata nella consulenza per la sostenibilità, hanno dato visibilità a questa realtà, basti pensare che loro sfilate “Green Carpet” sono arrivate anche al Lido di Venezia, mostrando abiti di riuso creativo», racconta la docente.
«E’ un fenomeno che sta coinvolgendo non solo brand di nicchia sperimentali ma anche aziende strutturate – continua Vaccari – anche se al momento si tratta di pochi vestiti recuperati fra migliaia di tonnellate di scarti, è il contributo a dare un messaggio che gli abiti possono avere una seconda vita che vale più del singolo capo. L’obiettivo principale deve essere fare sostenibilità culturale, per cambiare la percezione dei consumatori e dei grandi produttori».
«Per avere una moda sostenibile bisogna cambiare testa, ripensarla con un atteggiamento diverso e per questo non basta l’upcycling – spiega la professoressa – la forza della moda è da sempre quella di formare i gusti e mescolare linguaggi e visioni diverse, il cambiamento ne è parte integrante, la moda quindi può fare molto se decide di sfidare la crisi ambientale e abbandonare le logiche della fast fashion, ovvero di abiti quasi usa e getta per qualità e durata».
«Come imparare a fare moda upcycling? – la professoressa Vaccari non ha dubbi – per prima cosa bisognerebbe studiare i ready made di Marcel Duchamp, l’artista che creava opere d’arte a partire dall’esistente, perché è proprio la logica di lavorare con il già fatto, che porta a sperimentare a partire dai limiti imposti dalle forme di partenza. Bisogna riuscire a vedere l’inespresso dentro a un vestito, per farlo emergere e far rinascere il capo».
In Iuav sono presenti diversi corsi e laboratori che toccano il tema dell’upcycling per formare i designer di domani: «Lavoriamo con diverse aziende del territorio che ci forniscono scarti di lavorazione o materiali da rivalorizzare, come nel caso delle scarpe dismesse del brand Womsh a cui diamo nuova vita nel laboratorio seguito da Clizia Moradei oppure il progetto “Upcycling Traditions” in collaborazione con il brand Barena Venezia di cui si occupa Mariavittoria Sargentini, passando per i corsi, i workshop e le attività di ricerca di Rafael Kouto, Fabio Quaranta e Mauro Simionato. Cerchiamo di insegnare agli studenti che “up” in upcycling indica un valore aggiunto e non una tattica per rimanere alla moda in modo economico».
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