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Indimenticabile Robert Mapplethorpe

Derrick Cross, 1983 © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission.
Fino al 6 gennaio, Le Stanze della Fotografia sull’isola di San Giorgio Maggiore ospitano la grande retrospettiva “Le forme del classico” dedicata al fotografo newyorkese

«Su Robert è stato detto molto, e molto altro si dirà. I giovani faranno propria la sua andatura. Le giovani vestiranno di bianco e piangeranno i suoi riccioli. Verrà condannato e venerato. I suoi eccessi biasimati oppure romanzati. Alla fine, la verità potrà essere ritrovata soltanto nella sua opera, il corpo materiale dell’artista. Essa non svanirà. Gli uomini non possono giudicarla. Poiché l’arte canta di Dio e a lui appartiene in ultima istanza». Patti Smith, tra le pagine del suo memoir “Just Kids”, ha una sola certezza: l’eredità artistica di Robert Mapplethorpe non verrà dimenticata. Venezia la tiene bene a mente e, a trentatré anni dalla retrospettiva ospitata a Palazzo Fortuny, torna ad accoglierla nelle Stanze della Fotografia sull’Isola di San Giorgio Maggiore. Sono oltre duecento gli scatti in mostra fino al 6 gennaio in un percorso espositivo tutto dedicato alle “Forme del classico”. «La storia di Mapplethorpe è appassionante e straziante, sincera e vulnerabile, trasparente e incredibilmente ambigua. Così ambigua che è facile scambiarla per la trama di un film. Invece è tutto vero e la sua vita assomiglia molto alle sue fotografie. E per questo le sue immagini continuano ad affascinare in maniera instancabile», osserva il curatore Denis Curti, «il suo sguardo, a trentasei anni dalla sua scomparsa, resta unico e irripetibile perché contiene il desiderio collettivo di trovare un luogo dove potersi riappropriare, senza pregiudizi, degli spazi vitali necessari per esprimersi in piena libertà».

 

Self Portrait, 1975 © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission.
«La fotografia non è il mezzo, ma il fine stesso»

«Era l’estate in cui morì Coltrane. L’estate di Crystal Ship. I figli dei fiori levavano le braccia vuote e la Cina esplodeva l’atomica. Jimi Hendrix dava fuoco alla sua chitarra a Monterey. La radio AM suonava Ode to Billie Joe. Ci furono rivolte a Newark, Milwaukee e Detroit. Era l’estate di Elvira Madigan, l’estate dell’amore. E in quell’atmosfera mutevole, per nulla accogliente, un incontro casuale cambiò il corso della mia vita. Fu l’estate in cui incontrai Robert Mapplethorpe». È il 1967. Robert e Patti camminano mano nella mano per le strade di New York. Sono just kids, “solo ragazzi” in fuga dal passato per realizzare un sogno. Hanno grandi progetti, ma all’inizio si cullano nell’incertezza del domani, tra cioccolate calde e scrambled eggs rimediate con gli espedienti più fortunati. Diventeranno amici, poi amanti e per sempre complici. Mapplethorpe inizia a raccontare ciò che la società cerca di nascondere. Prima s’immerge nella vita quotidiana della comunità LGBT: ne osserva i corpi nudi e ama indugiare sui loro dettagli. Poi fotografa sé stesso, Patti, la sensualità naturale dei fiori, l’anima intima dall’altra parte dell’obiettivo. Rifugge il vincolo di negazione che la morale convenzionale impone quando si parla di fisicità. L’elogio del desiderio e la poetica del corpo diventano modalità efficaci per riconoscersi. «La fotografia non era più il mezzo che sarebbe servito a raggiungere uno scopo», racconta Patti, «era il fine stesso».

Thomas and Dovanna, 1986 © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission.
La devozione per la bellezza

La pratica artistica di Mapplethorpe inizia dall’assemblaggio di collage realizzati con ritagli di riviste omoerotiche e objets trouvés. «Trovare i magazine maschili era un vero tormento», ricorda Patti, «provavamo un po’ di timore, quasi stessimo facendo qualcosa di sbagliato. Le riviste erano costose, cinque dollari ciascuna, e il contenuto era sempre un azzardo. Quando alla fine ne sceglieva una, tornavamo in tutta fretta all’albergo. Robert lacerava il cellophane con lo stesso carico di aspettative di Charlie che strappava l’involucro della barretta di cioccolato nella speranza di trovare il biglietto dorato». Prima i collage e poi la macchina fotografica. «Come nessun altro autore, si è conteso il rispetto del panorama artistico operando trasversalmente tra libertà espressiva e crudo erotismo», riflette il curatore, «ha saputo trasporre il fascino ambiguo della fotografia sui soggetti più disparati». Ma non si può iniziare una rivoluzione senza partire dalle radici. Mapplethorpe attinge alle storia dell’arte per studiare la realtà plastica e la rappresentazione statuaria dei corpi. «Esprime una profonda devozione per la bellezza e per le molteplici declinazioni con le quali essa si manifesta, seguendo una strada totalmente inesplorata», conclude, «dove la cruda restituzione della vita non risulta mai eccessiva o incontrollata, bensì convive con un’eccellenza estetica tale da ripulire le sue immagini dal vincolo della promiscuità».

«L'opera più meravigliosa di tutte»

Concepito come una viaggio in tre atti, il racconto visuale di Mapplethorpe proseguirà con altre due tappe nel 2026. A Palazzo Reale di Milano sarà il desiderio a prendere forma, mentre al Museo dell’Ara Pacis di Roma la bellezza verrà svelata la bellezza in una selezione inedita di scatti italiani. Michael Ward Stout, amico e presidente della Robert Mapplethorpe Foundation, racconta che l’artista newyorkese lascia in eredità «due scopi filantropici a cui teneva molto»: sostenere il riconoscimento della fotografia come forma d’arte a livello istituzionale e promuovere la ricerca sull’AIDS e sull’HIV per incrementarne la prevenzione. La malattia che, nel 1989, lo strappa alla vita all’età di 43 anni. «Mi ritrovai accanto al suo letto e gli presi la mano. Rimanemmo così a lungo, senza dire nulla. Tutto a un tratto lui sollevò lo sguardo e disse: “Patti, l’arte si è impossessata di noi?”. Io guardai altrove; non volevo pensarci davvero. “Non lo so, Robert. Non lo so.”Forse era andata così, ma chi avrebbe potuto pentirsene? Soltanto un folle avrebbe potuto pentirsi di essersi lasciato possedere dall’arte; oppure un santo», scrive Patti, «l’altro pomeriggio, quando ti sei addormentato sulla mia spalla, anch’io mi sono appisolata. Prima di farlo però mi sono guardata attorno, c’erano le tue cose e le tue opere, e ho ripensato agli anni del tuo lavoro; di tutte le tue opere, tu sei la più meravigliosa. L’opera più meravigliosa di tutte».

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