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L’Accademia di Belle Arti riscopre i suoi gessi

Gipsoteca Accademia
La collezione d’ispirazione greco-romana si mostra al pubblico con un nuovo allestimento nella sede centrale degli Incurabili

Un nuovo allestimento per la gipsoteca dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. La raccolta di gessi ottocenteschi d’ispirazione greco-romana si mostra al pubblico lungo il corridoio del primo piano della sede centrale degli Incurabili. Ordinate lungo le pareti, le opere dialogano tra loro in una sequenza che ne valorizza ogni dettaglio. Il soffitto è stato rinnovato con un doppio sistema d’illuminazione: una luce diffusa crea un’atmosfera uniforme e i fasci direzionali esaltano le volumetrie. La nuova struttura è arricchita da pannelli, progettati come grandi tele, che donano all’ambiente un carattere pittorico. Un’intelaiatura in lamiera di ferro nera incornicia gli spazi e nasconde gli impianti di riscaldamento. Tende rigide su telaio filtrano la luce naturale, modulandola in base alle esigenze. Il riallestimento, avviato dall’allora presidente Fabio Moretti e realizzato grazie al supporto di Armani Group-L’Oreal, si è concluso dopo anni di lavori nel pieno rispetto del progetto originario curato dai professori Mauro Zocchetta e Alberto Fiorin.

Ph. Marta Mancuso
La storia della gipsoteca

Come sottolinea il direttore Riccardo Caldura, l’esposizione restituisce «un quadro storico sull’evoluzione della formazione artistica degli alunni». «Un tempo», spiega la direttrice dell’archivio e fondo storico dell’Accademia Piera Zanon, «gli studenti esercitavano il disegno del nudo e studiavano l’anatomia umana attraverso i gessi». Nei primi anni dell’Ottocento, Antonio Canova contribuisce alla costruzione della gipsoteca offrendo diversi pezzi appartenenti alla Galleria di Filippo Farsetti. Nel 1819, Leopoldo Cicognara la arricchisce ulteriormente con ventitré calchi e bassorilievi del Partenone, i celebri Elgin Marbles, donati dal re inglese in segno di riconoscenza per l’omaggio della sua opera “Storia della scultura”. Quattro anni dopo, ottiene da Luigi I di Baviera la copia delle statue frontali del tempio di Egina e da Ferdinando I i gessi raffiguranti Aristide, Eschine e la Psiche di Capua. Oggi, solo parte delle opere trovano posto nella sede degli Incurabili, mentre le altre sono custodite nell’edificio storico delle Gallerie. «Questo riallestimento rafforza il legame tra le due istituzioni», evidenzia il direttore Michele Casarin, «un rapporto spesso trascurato, ma fondamentale per il patrimonio artistico della città».

Ph. Marta Mancuso
Spinario

“Lo Spinario” ritrae un fanciullo nudo seduto su una roccia, intento a togliersi una spina dal piede sinistro. I dettagli del volto, dolcemente infantile, tradiscono una lieve smorfia di dolore, ma la figura è composta, raccolta in un gesto naturale colto in un attimo di quotidiana umanità. Ne esistono numerose versioni sparse nei musei di tutto il mondo. Il motivo, molto diffuso e noto nell’antichità, probabilmente viene creato in Grecia nel III secolo a.C. Da lì giunge a Roma dove viene replicato per raffigurare Ascanio, figlio di Enea. Durante il Rinascimento diviene una delle statue antiche più ammirate e copiate: la sua fama è tale che, nel 1798, la versione in bronzo entra nel bottino di guerra portato a Parigi da Napoleone, dove rimane fino al 1815, quando viene restituito  all’Italia. Nel tempo emergono diverse interpretazioni sul soggetto della statua. Una leggenda racconta che rappresenti Gnaeus Martius, un giovane pastore che, nonostante una spina nel piede, percorre un lungo cammino per consegnare un messaggio urgente al Senato romano. Gli studiosi ritengono che lo Spinario sia un pastiche romano del I secolo a.C., nato dall’unione di un corpo ellenistico con una testa di epoca successiva. L’orientamento dei capelli suggerisce infatti che la testa fosse originariamente eretta e non inclinata verso il basso, come appare oggi. Questa combinazione di elementi ne fa un’opera unica, testimone del gusto e delle trasformazioni artistiche dell’epoca romana.

Ph. Marta Mancuso
Tre Grazie

Aglaia, lo splendore. Eufrosine, la gioia. Talia, la prosperità. Chiamate dai greci Cariti e dai romani Grazie, le tre figlie di Zeus e della ninfa Eurinome erano solite danzare tra divinità e mortali. Presiedevano ai banchetti e alle feste, intrecciando le loro mani delicate in cerchi di danza sotto il cielo dell’Olimpo, a fianco di Afrodite ed Eros nelle celebrazioni dell’amore. Nel tempo, la loro immagine si fissa nell’arte, prima greca e poi romana. I loro corpi, esili ed armoniosi, si fanno di marmo e affresco, immortalati nelle forme più eleganti. Nel “De beneficiis”, il filosofo romano Seneca le descrive come rappresentazione simbolica del principio della generosità: il triplice ritmo dell’offrire, dell’accettare e del restituire. Questo ciclo ininterrotto di dono e riconoscenza trova espressione nelle loro mani intrecciate nell’eterno fluire della gratitudine. Già tra i Romani la consapevolezza di questo movimento circolare della generosità si riflette nell’uso dell’espressione “gratias agere, letteralmente “rendere grazie”. Le raffigurazioni ellenistiche, invece, le immortalano nude in un abbraccio eterno in cui la divinità centrale è volta di spalle e le altre due si ergono ai lati, unite in una simmetria perfetta. Le posture seguono la legge del chiasmo: un andamento ad S in cui il bacino s’inclina dolcemente sotto il peso di un passo leggero, mentre le spalle rispondono con un’inclinazione opposta in un equilibrio armonioso. Il gesso della gipsoteca richiama il gruppo marmoreo esposto nella Libreria Piccolomini della cattedrale di Siena, copia romana dell’originale ellenistica.

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