Il deserto fu terreno d’avanguardia. Quella esposta a Ca’ Foscari Esposizioni a Venezia è una storia inedita dell’arte della prima metà del XX secolo proveniente dal Museo Statale delle Arti dell’Uzbekistan di Tashkent e dal Museo Statale delle Arti del Karakalpakstan di Nukus, intitolato a Igor’ Savickij. Sono circa 100 le opere realizzate tra la fine dell’800 e il 1945 presenti nella mostra “Uzbekistan: l’Avanguardia nel deserto. La Forma e il Simbolo”, a cura di Silvia Burini e Giuseppe Barbieri, direttori del Centro Studi sull’Arte Russa dell’Università Ca’ Foscari Venezia, presentata per la prima volta al pubblico italiano e del mondo occidentale. La mostra vede soprattutto dipinti su tela e su carta, a cui si aggiungono emblematici reperti della tradizione tessile uzbeka, in un progetto espositivo promosso e sostenuto dalla Uzbekistan Art and Culture Development Foundation che continua a Palazzo Pitti a Firenze. Si tratta della prima esposizione nella storia a stabilire delle precise relazioni tra le due più importanti raccolte d’arte del Novecento presenti in Uzbekistan. L’esposizione racconta per la prima volta la genesi e il successivo sviluppo di una autentica scuola nazionale, di una “Avanguardia Orientalis” con importanti opere di artisti quali Karachan, Volkov, Kašina, Tansykbaev, Usto Mumin o Korovaj, che realizza “Donne (rosa) in Bukhara. Mattina” e un prezioso schizzo non finito di “Bazar nell’ex ghetto”.
Diverse sono le opere mai in precedenza inviate fuori dei confini dell’Uzbekistan, tra cui quattro creazioni di Kandinskij, vera chicca dell’esposizione: due olii risalenti al 1920, ultimo anno della sua permanenza in Unione Sovietica, e due disegni su carta. Lentulov, Maškov, Popova, Rodčenko e Rozanova sono invece solo alcuni dei protagonisti della nascita dell’astrattismo. A questi si aggiunge un’ampia selezione di opere dell’Avanguardia Orientalis, esito di un dialogo culturale e artistico profondissimo: da una parte le secolari tradizioni delle sete sfavillanti e la raffinata palette delle decorazioni architettoniche, dall’altra l’esigenza di un codice pittorico nuovo, mai in precedenza sperimentato nell’Oriente islamico. Tra le sale prende così corpo un dialogo interculturale e inclusivo che mette insieme artisti uzbeki, kazaki, armeni, russi d’Oriente e siberiani, quasi tutti formatisi a Mosca e a San Pietroburgo.
Una sala in mostra, in particolare, è dedicata ad un’inedita serie di opere, pittoriche e grafiche, del Gruppo Amaravella, impegnato tra 1923 e 1928 a tradurre visivamente i nodi cruciali delle teorie cosmiste diffuse all’epoca, non solo in Russia. Le loro composizioni mistiche, come quelle di Fateev, leader del movimento, e di Pseseckaja, Sardan, Sigolev e Smirnov-Ruseckij, rivelano la profonda influenza delle filosofie idealiste di Kandinskij e Rerich e riportano alla mente la magia di uno sguardo surrealista.Erano artisti che volevano andare oltre l’apparenza e affermavano che il loro dovere morale era quello di recuperare la dimensione celeste nella “foresta di simboli” che li avvolgeva. Fateev e Sardan, in particolare, ricercano le tracce della trasformazione cosmica e dell’Apocalisse di cui, a inizio Novecento, molti erano in attesa. Tale stato d’animo spinse il gruppo alla formulazione di pittura astratta o non figurativa. I membri di Amaravella desideravano infatti rivelare l’armonia organica dell’universo e arrivare a una sintesi artistica e biologica che contrastasse la presunta frammentazione della civiltà umana. La comprensione e la raccolta dell’inedito gruppo di opere del Gruppo Amaravella, esposte per la prima volta a Ca’ Foscari, si deve in particolare a Igor’ Savickij, di cui ora il Museo di Nukus è il principale contenitore.
La rassegna è così anche occasione per approfondire la figura e l’opera di Igor’ Savickij, di cui in mostra spiccano due opere: “Cupole a Khiva“ e “Scavi a Kalala-gyr”. Proprio a lui si deve, nel bel mezzo del deserto nel Karakalpakstan, nella parte nord-occidentale dell’Uzbekistan, la costituzione di una delle più grandi collezioni di arte d’Avanguardia russa nel mondo, seconda in termini di quantità solo a quella del Museo Russo di San Pietroburgo, e pressoché unica testimonianza di uno dei più importanti movimenti artistici della storia russa del XX secolo. Archeologo di formazione, pittore e collezionista, dalla fine degli anni ’50 e fino agli anni ’70 Savickij ha raccolto a Nukus migliaia di reperti archeologici e manufatti di artigianato e arte popolare della regione, affiancandoli col tempo ad altre molte migliaia di dipinti e di fogli di grafica provenienti dall’Uzbekistan e dall’Unione Sovietica. Durante i suoi viaggi ha rintracciato le opere negli atelier degli artisti o le ha acquistate da vedove ed eredi, nei “deserti” del rifiuto staliniano e post staliniano per la modernità dell’Avanguardia di inizio Novecento. Ha mantenuto al centro dei suoi interessi le opere degli artisti che avevano vissuto e lavorato nel Turkestan, dove lui stesso era stato evacuato negli anni della Seconda Guerra Mondiale, facendo rivivere nel deserto di Nukus le radici dell’arte moderna in Uzbekistan.
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