
«Abbiamo una certezza, ovvero che le microplastiche sono ormai un contaminante ubiquitario – spiega Andrea Sfriso, ricercatore dell’Università degli Studi di Ferrara – con il mio gruppo di ricerca siamo riusciti a mettere a punto dei protocolli di analisi per individuarle, attraverso un processo complesso per non contaminare i campioni, ne abbiamo trovato tracce anche nei fiumi e laghi di montagna più remoti, fino all’Antartide, ma sono ovunque, le mangiamo e le beviamo, sono addirittura contenute nel sale da cucina. Anche l’acqua di rubinetto, se non filtrata, ne contiene e sono nell’aria che respiriamo: dai nostri esperimenti dopo una settimana di analisi, ne abbiamo trovato 200 particelle per metro quadro ogni ora».
Ospite di una conferenza, dal titolo “Da dove vengono, quante sono, dove vanno e che cosa fanno le microplastiche nell’ambiente marino costiero?” organizzata dalla Società Veneziana di Scienze Naturali in collaborazione col Museo di Storia Naturale Giancarlo Ligabue di Venezia, l’esperto ha spiegato anche la differenza di questi materiali in base alla loro dimensione. «Si possono suddividere in due famiglie: large e small, laddove le seconde non sono visibili ad occhio nudo perché inferiori al millimetro; e primarie e secondarie, le prime che nascono già piccole come contenuto di prodotti quali brillantina, vernice spray o polveri alla base di scrub facciali, mentre le seconde si frammentano progressivamente, soprattutto da rifiuti che finiscono in mare e subiscono l’erosione delle onde e l’ossidazione dei raggi solari UV».
«Una delle principali fonti delle microplastiche in mare sono i vestiti – spiega il ricercatore – basta pensare a una città come Venezia, dove ad ogni lavatrice, si genera una nube di dispersione di detersivo dalla fossa settica ricca di frammenti tessili o alle plastiche spiaggiate sulle coste, come le confezioni di polistirolo, reti e funi che si disperdono per l’uso dei pescatori. Ma anche nei contesti urbani si generano particelle microscopiche dal consumo delle gomme delle ruote delle auto, che poi con acqua piovana finiscono a mare, dove ne abbiamo trovate».
«Fra i polimeri più diffusi che abbiamo rilevato ci sono Polietilene tereftalato (PET), Polietilene ad alta densità (HDPE), Polivinilcloruro (PVC), Polietilene a bassa densità (LDPE), Polipropilene (PP) e Polistirolo o Polistirene (PS). Tutti materiali creati per oggetti di uso comune – aggiunge Sfriso – come bicchieri, piatti, packaging e tappi per detersivi, fibre come il nylon per reti da pesca, collant, fibre tessili. Tutti questi materiali sono a rilascio, anche nel caso delle tubature idriche o delle pentole antiaderenti con superficie di rivestimento. Questi elementi in base alla forma, alle dimensioni e alla densità possono galleggiare o affondare in acqua, infatti i rifiuti marini derivano da fonti terrestri, di cui il 60% è di origine locale. Il solo fiume Po scarica 140 tonnellate di microplastiche l’anno».
«Purtroppo non esiste un unico metodo per isolare le microplastiche – spiega l’accademico – dipende dal polimero e dalla sua struttura. Ci sono però quattro fasi comuni: la digestione del campione, la separazione, il setacciamento e la conta. L’analisi risente anche dal tipo di matrice da studiare, infatti varia molto dalla materia biologica tra acqua, fango, organismo o biota come una pianta o un mollusco per esempio e poi molto incide dalla dimensione delle particelle. Se infatti un retino da plancton può essere sufficiente per alcuni sedimenti come la sabbia, il fango se ha parti collose deve prima essere disgregato con acqua ossigenata ed etanolo, in modo da disperdersi e liberare le micro plastiche che contiene. Se poi si analizzano tessuti molli, come quelli dei molluschi, serve una soluzione a base di soda non superiore ai 40°».
«Possono anche essere trattate come se fossero solidi in olio – aggiunge – infatti un moderno metodo di estrazione è l’uso di olio dove il liquido funge quasi da filtro, aiutando a separare le microplastiche dal resto, il tutto viene separato diluendo la parte oleosa con esano. Il problema maggiore è che non tutte le microplastiche sono visibili, non solo per le dimensioni ma proprio perché i quasi ¾ sono trasparenti, tanto da non sembrare plastica, quindi molto spesso per analizzarle ricorriamo a coloranti fosforescenti, come il rosso dell’anilina. In questo modo per ogni particella è possibile ricavare uno spettro che permette di indentificare la tipologia e la composizione chimica del materiale».
«Sulle microplastiche abbiamo una sola certezza: sono tante, minuscole e dappertutto – chiarisce Sfriso – non siamo sicuri se e quanto facciano male, ma certamente non fanno bene. Per metterle in circolo è sufficiente avere un vestito di pile e non basta mettere un filtro in casa per fermarle. Se possiamo pensare di rimuovere le più grandi e visibili dobbiamo considerare che le più piccole in acqua sedimentano e diventano parte del fondale già dopo qualche decina di giorni. Sono già presenti nella laguna di Venezia in dimensioni superiori al mezzo millimetro e la loro presenza arriva fino a Goro e Rosolina e in Croazia. Ci sono migliaia di particelle per chilo di polimeri come polietilene, pet, polistirene e polipropilene. Nelle alghe, che sono piuttosto “collose”, abbiamo trovato fino a 330 particelle per grammo».
«E’ chiaro che di conseguenza anche i pesci che vivono in questo ambiente sono contaminati – conclude – specie come triglie, sogliole, sardine, orate e acciughe hanno presenza, tra palato, intestino e stomaco, dalle 10 alle 100.000 particelle, il loro stesso processo di digestione frantuma ulteriormente il materiale. Ci sono poi specie di molluschi ottimi indicatori di questa contaminazione come i murici, anche se non si evidenziano effetti tossici marcati, tutte le specie osservate in ambienti densi di microplastiche mostrano maggiori perdite di energia a livello di assimilazione di nutrienti, anche se poi ci sono eccezioni come le cozze (Mytilus galloprovincialis) che paradossalmente restano in salute. Insomma il problema vero non è tanto la tossicità in sé ma gli esiti della presenza ubiquitaria di questi elementi, con un esposizione cronica. Con altre sostanze l’effetto sarebbe diverso? Non lo sappiamo con certezza, perché ad esempio anche la lana non è degradabile e magari potrebbero fare lo stesso effetto nelle stesse concentrazioni».
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