
Nonostante sia stato confermato da numerosi studi epidemiologici e sia abbastanza evidente, non tutti si rendono conto che la principale causa di morte, nelle società occidentali come la nostra, sono le malattie cardiovascolari. La patologia, invece, che desta maggiori timori per la propria salute e sopravvivenza resta sempre quella neoplastica.
Eppure tanto è stato fatto in termini di ricerca scientifica per ridurre in modo significativo la mortalità legata alle patologie cardiovascolari. Ad esempio, fino agli anni Ottanta, la mortalità per infarto miocardico acuto (IMA) – l’attacco di cuore, insomma… – si attestava intorno al 30%. In seguito, l’istituzione delle UTIC (Unità Terapia Intensiva Coronarica) nei principali ospedali e la scoperta di terapie e metodiche letteralmente “salvavita” hanno drasticamente ridotto tale percentuale, attestandola intorno all’8%.
A fare la differenza l’aver compreso che a essere cruciali per la sopravvivenza di un individuo colpito da infarto sono i primissimi momenti, all’incirca i primi 60 minuti, lasso di tempo in cui l’ostruzione della coronaria determina il danno del tessuto del cuore: intervenire precocemente su questo processo vuol dire salvare il tessuto cardiaco e quindi la funzione del cuore.
Sono state così studiate e messe a punto procedure che riescono a disostruire la coronaria occlusa: tramite l’infusione precoce per via endovenosa, anche in pronto soccorso o durante il trasporto in ambulanza, di sostanze capaci di sciogliere il trombo che occlude la coronaria (i cosiddetti fibrinolitici), è possibile ridurre drasticamente l’estensione dell’area di tessuto miocardico danneggiato.
Il percorso terapeutico procede poi in terapia intensiva coronarica e se necessario, in emodinamica dove, introducendo un catetere attraverso una vena del braccio o della gamba, si valuta accuratamente lo stato delle arterie coronarie – che sono 3: sinistra, destra e circonflessa, ciascuna per una specifica zona del cuore – e, laddove necessario, si può dilatare con un palloncino la coronaria ristretta in modo critico ed eventualmente anche agire sulle altre, qualora presentassero già dei restringimenti, stenosi, che possano di mettere in pericolo altre zone del cuore (angioplastica o PTCA).
In alcuni casi il cardiologo interventista completa la procedura posizionando nella zona che ha dilatato col palloncino una piccola spiraletta di metallo, stent, che impedirà nei mesi successivi che proprio in quella zona la coronaria possa restringersi nuovamente, a causa della persistenza dei fattori di rischio dell’individuo (familiarità, ipercolesterolemia, diabete, ipertensione, fumo, ecc). Questi fattori di rischio devono comunque essere decisamente tenuti sotto controllo e ridimensionati il più possibile con corrette abitudini alimentari e di vita (attività fisica e astensione dal fumo) e terapie farmacologiche adeguate.
La mortalità precoce per infarto è dovuta a pericolose aritmie ventricolari che si manifestano a causa del danno miocardico in fase acuta. Interrompere efficacemente tali aritmie con farmaci antiaritmici o praticare immediatamente la rianimazione cardiopolmonare in caso di arresto cardiaco sono procedure molto efficaci nel ridurre drasticamente la mortalità legata agli attacchi di cuore.
Ma ciò può essere messo in atto solo in presenza di personale addestrato oppure in ambiente sanitario: ecco perché resta fondamentale, in caso di insorgenza di sintomi che facciano pensare ad un attacco cardiaco, allertare immediatamente il 118 e non trasportare personalmente con la propria auto il malato in ospedale. In attesa dell’arrivo dei soccorsi sanitari, molto spesso, l’operatore del SUEM può dare indicazioni utili ai presenti per soccorrere il paziente, eventualmente anche utilizzando i defibrillatori (DAE) che ormai, per fortuna, sono presenti in molti punti strategici sul territorio e il cui uso non necessita di particolari competenze.
Qui la mappa dei DAE posizionati nell’area metropolitana di Venezia: https://www.healthvenice.com/heart-protected-city-it.aspx
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