È idealmente diventata il testamento artistico sull’uso del colore del maestro veneziano Ennio Finzi, considerato uno dei massimi esponenti dell’Espressionismo Astratto e della Pittura Cinetica. Nessuno infatti poteva immaginare che la mostra “Omaggio a Ennio Finzi”, allestita dal 17 maggio alla Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro a Venezia negli spazi permanenti del museo, a cura di Elisabetta Barisoni e Michele Beraldo, sarebbe stata l’ultima mostra dedicata all’artista prima della sua morte, avvenuta a Venezia il 19 giugno scorso. La mostra, nata con l’intento di proseguire l’attività di Ca’ Pesaro nella valorizzazione degli artisti della collezione permanente, si è poi rivelata un’esposizione di commiato per un artista tra i più radicali del Novecento italiano e così significativo, in primis per Venezia e per il panorama internazionale. Annoverato tra i maestri dell’Astrattismo, Ennio Finzi nacque a Venezia il 16 marzo 1931, in un giorno di neve, da cui sostenne derivò tutta la sua passione per il tempo veneziano grigio, nebbioso, e la paura, addirittura il panico, per le giornate di cielo azzurro. Da piccolo abitava in Campo San Giacomo dell’Orio, in un appartamento arioso e luminoso, che alle pareti aveva opere di suo padre, dotato autodidatta di cui l’artista conservava con gelosia e amore una copia di un dipinto di Toulouse Lautrec. Iscrittosi a 11 anni all’Istituto d’Arte nella sezione di Decorazione pittorica, non conseguì il diploma ma continuò l’istruzione avendo come primo maestro il pittore e scultore Ferruccio Bortoluzzi, che ogni tanto durante la guerra ospitava lui e suo padre visto che, avendo loro un cognome ebreo, più di qualche volta dovettero nascondersi per timore di retate.
Nella sala a lui dedicata in mostra si comprende come Ennio Finzi sia stato capace di sovvertire il linguaggio informale del dopoguerra, perseguendo con la sua pittura irrituale un’inconsueta ricerca sui valori atonali e timbrici del colore e sul suono che questo produce, come l’ha definita così il critico Luciano Caramel, sostenendo la tesi che la percezione del colore avvenga in egual misura attraverso vista e udito. Un pensiero e una filosofia pittorica che per gli inizi del ‘900 erano molto d’avanguardia. Pochi prima di lui infatti avevano associato al colore un timbro o una musicalità. Viceversa, il maestro ha saputo anche tracciare un percorso meno concitato e più sotteso alla riflessione percettiva, conducendo un’approfondita indagine sulle strutture intrinseche della forma, nel tentativo forse di domare e “piegare” le proprie ingovernabili contraddizioni. I curatori hanno allora scelto di rappresentare l’artista veneziano con alcune delle sue opere più emblematiche degli anni ‘50, come le geometriche “Scale cromatiche”, dove l’intermittente apparire del colore si snoda in limpide partiture a fasce verticali, oppure in “Ritmi vibrazione”, dove il giallo scorre esile e filiforme in rapida e cangiante progressività temporale, Ma anche in “Bianco su bianco” e “Grigio su grigio”, dove la luce si rivela quale emittente spirituale di una materia diradata, dai confini labili e indistintamente sospesi. Sono queste le opere protagoniste di questa ricerca, esposte Ca’ Pesaro in una delle ultime sale del percorso espositivo fino al 6 ottobre, che mostrano lo sviluppo artistico del maestro, attraverso creazioni di scale cromatiche e frequenze luminose, come una registrazione immediata di vibrazioni di ritmi e di luce.
Sin da giovane Finzi fu vicino al movimento pittorico dello Spazialismo e del Fronte Nuovo delle Arti, e con esso a Tancredi Parmeggiani. Iniziò a lavorare in concomitanza di maestri del calibro di Virgilio Guidi e in particolare con Emilio Vedova, che lo chiamò a collaborare nel suo studio. «Fu certamente una conoscenza e poi collaborazione straordinaria. – ricordava tempi addietro il maestro – In questo clima elettrico anch’io lavoravo naturalmente sotto il suo influsso, sul gesto, sul segno, sullo scontro, insomma sull’urto. Lui era dotato di una personalità dirompente, pirotecnica, straordinariamente forte: standogli vicino era assolutamente impossibile non rimanerne imbrigliati». Dal 1949 frequenta all’Accademia di Belle Arti di Venezia il corso di Scuola libera del Nudo, inizia a suonare il violino e frequenta le iniziative musicali della Biennale Musica e i concerti alla Fenice, dove ha modo di conoscere il compositore Bruno Maderna che lo inizia alle nuove tendenze della musica contemporanea. Fu poi Parmeggiani a introdurlo alla collezionista americana Peggy Guggenheim. Gli anni ’50, come già accennato, sono caratterizzati per Finzi dalla ricerca sull’uso del colore e degli effetti distonici e atonali, proseguendo parallelamente lo studio sulle nuove correnti musicali, come l’atonalismo schoenberghiano e il “be bop” del jazz afroamericano.
Tutte sollecitazioni culturali che favorirono una radicalità di pensiero e di azione completamente nuove, che il maestro spiegava in questi termini: «Quando mettevo un rosso nella tela, non m’interessava usare una gamma di rossi che fossero in relazione alla nota dominante, mettevo giù un rosso, un nero e li pensavo fine a sé stessi. Ma la pittura che conoscevo a Venezia, o anche ovviamente attraverso i libri, non mi dava la possibilità di capire questa possibilità. Per cui sono entrato nel pieno della musica atonale e tutto il mio lavoro degli anni cinquanta era dissonante, cercavo la dissonanza non solo nella forma ma anche nel colore, stonavo volutamente e per questo dicevano: “eh ma che coloracci!”. Non capivano che per me l’aspetto teorico era di estrema importanza». Tutte cose che l’artista sperimentò nel suo studio che nel ’54 l’Opera Bevilacqua La Masa gli concesse, dove ebbe la possibilità di isolarsi e lavorare indisturbato. Negli anni ‘60 e ‘70, Finzi prese poi le distanze dai cromatismi che avevano caratterizzato il periodo giovanile ed elabora una non-pittura in bianco e nero, basata sulla combinazione dei ritmi e vicina all’Arte Cinetica. Il 1978 detta il ritorno al colore, il Comune di Venezia lo omaggia nel 1980 con una esposizione antologica nelle Sale della Galleria Bevilacqua la Masa e successivamente a metà degli anni ‘80 vira verso un utilizzo del colore per “riaffioramento”, ispirato anche alla musica di Luigi Nono. La consacrazione ufficiale arrivò nel 1986 con la partecipazione alla Biennale d’Arte di Venezia, ottenendo riconoscimenti in Italia e all’estero. Nell’estate del 1987 la Fondazione Bevilacqua La Masa inaugura la mostra “Spazialismo a Venezia”, avviando in questo modo una prima ricognizione storica sui fatti e le figure del movimento spaziale veneziano che vide, tra gli espositori, anche le ricerche parallele di Finzi. Questi furono momenti importanti per ripensare al suo lavoro in una prospettiva ormai storica, in cui elaborò una carica di colori liberatoria e “sgrammaticata”, realizzando variazioni libere senza schemi metrici che sperimentano la pittura come un territorio sterminato.
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