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Marcello Mazzucco: il miracolato del Vajont

Tra i pochi superstiti della tragedia del Vajont, Marcello Mazzucco racconta gli attimi della catastrofe. «Mi diede l’impressione che le montagne intorno stessero collassando e che tutta la valle stesse implodendo».  

Quando la sera del 9 ottobre del 1963, poco più di 60 anni fa, una gigantesca onda di acqua e fango tra i 50 e 60 milioni di metri cubi, provocata dall’enorme frana che precipitò dal Monte Toc nel bacino idroelettrico del Vajont, causò la morte di quasi 2000 abitanti, pochissimi furono i superstiti. Tra loro c’è Marcello Mazzucco, classe 1948, nato a Casso e cresciuto mentre la diga veniva eretta. Quando nel ’60 finirono i lavori aveva 12 anni e fino al quel momento non ci furono problemi, anzi, le persone erano contente perché  la diga avrebbe di fatto collegato il versante opposto del Toc dove le famiglie di Casso avevano gli allevamenti di bestiame evitando loro di scendere a valle e risalire per un sentiero. Lui che ha vissuto sulla sua pelle la tragedia del Vajont, sopravvissuto insieme a tutta la sua famiglia, ha raccontato i suoi ricordi a GV Ve-nice in occasione della mostra CalamitA/À allestita nel foyer del Museo M9 di Mestre (leggi qui) e nel cui progetto Mazzucco è stato fotografato dal curatore Gianpaolo Arena. Mazzucco con la sua famiglia abitava nella parte bassa di Casso. La sua casa è stata una di quelle più vicine alla lago ad essersi salvate, le altre più basse sono andate tutte distrutte. Casso infatti era distante 400 metri dalla diga e tutto il paese si è salvato, diversamente da coloro che abitavano vicino al lago. Dalle parole di Mazzucco, che al tempo aveva 15 anni, il racconto degli attimi prima e dopo la tragedia.

Che ricordi ha di quel giorno?

«Il giorno della tragedia mi recai come al solito a scuola a Longarone. A mezzogiorno uscendo per andare in stazione a riprendere la corriera sono passato per il centro del paese. Davanti alla caserma di Carabinieri un capannello di persone chiedeva informazioni sulla diga: se dovevano preoccuparsi, se c’era un allarme. I carabinieri li tranquillizzavano, dicendo loro che non c’era pericolo e che tutti potevano restare nelle loro case, e che anche loro erano tranquilli. Queste sono le ultime parole che ho sentito prima del disastro».

E poi cosa successe?

«Presa la corriera e risalito il sentiero che in mezzoretta dalla diga porta a Casso, al pomeriggio, in una bellissima giornata di fine estate, sono andato a raccogliere le patate con la mia famiglia. Alla sera poi, andai al bar del paese per fare due chiacchiere con gli amici. Alle dieci meno un quarto salutai per andare a letto. Neanche il tempo di addormentarmi che alle 22.39 iniziò la frana. Nei primi attimi sembrava una di quelle frane che succedeva spesso: pochi secondi e di solito finiva tutto. Quella sera invece il rumore aveva raggiunto un’intensità indescrivibile, inoltre si era aggiunto il tremore del terremoto dovuto alla massa che si muoveva. Dire che sembrava che mille treni mi passassero vicino all’orecchio non è sufficiente per immaginare intensità del rumore. Mi diede l’impressione che le montagne intorno stessero collassando e che tutta la valle stesse implodendo. Lì subentrò il terrore della morte imminente, non vedevo via di fuga. L’unico gesto di difesa che feci fu quello di rannicchiarmi  nel letto pensando che se fosse caduta la casa avrei poto salvarmi in qualche buco o con qualche palo messosi di traverso. Pensieri fatti in pochi attimi. Subito arrivò la mamma che, scuotendomi, mi disse di scappare. Mi alzo, prendo in braccio mia sorella di nove anni, mentre mia mamma prende l’altra di sei mesi. Appena usciti dalla camera sentiamo l’acqua addosso. Non pensai subito all’acqua del lago, i responsabili parlavano infatti di un’onda massimo di 25 metri, e noi eravamo a 400 metri di distanza».

 

Cosa avete fatto?

«Scendendo le scale al buio arrivammo in cucina al piano terra, accendemmo una candela e per terra vedemmo le finestre sfondate e una spanna di fango e acqua. Lì capimmo che l’acqua non poteva che essere quella del lago. Usciti dalla porta di casa notammo poi che in strada con la pendenza l’acqua era già defluita. Subito andammo da dei parenti lì vicino che avevano la casa più riparata, che ci diedero dei vestiti asciutti. Poi ci riunimmo per passare la notte al bar del paese dei miei zii, che era diventato punto di incontro di tutti. Ricordo lo stranissimo stato d’animo delle persone: la gioia per la consapevolezza di essere sopravvissuti ad un’apocalisse così tremenda era incontenibile, al contempo però c’era la preoccupazione per i parenti che abitavano vicino al lago. Molti cercavano di andare giù a vedere ma tornavano indietro preoccupati. A 200 metri da noi non c’era più la strada, ma detriti e pietre che rendevano impossibile proseguire oltre. La certezza che fossero tutti morti però ancora non la avevamo».

E il giorno dopo?

«Tornai a casa per prendere i miei vestiti. Quando feci per entrare nella mia camera vidi che la porta non si apriva, se non per una fessura di 20 cm. Provai a spingere, ma nulla. Riuscii comunque ad infilarmici dentro e dietro la porta trovai una enorme pietra di circa 80 kg. Guardai in alto e vidi il cielo. Il masso aveva forato il tetto, il pavimento della soffitta e si era fermato in camera mia perché sotto c’era una parete divisoria che ha fatto resistenza. Quella sera piovevamo pietre come proiettili. Anche in chiesa, che è nella parte più alta del paese, cadde una pietra sul tetto e visibile ancora sulla balaustra. Sul momento non ho fatto caso al rischio che avevo corso. Solo dopo ho ripensato ai miracoli che ho vissuto in quella giornata. Oltre alla pietra caduta forse pochi secondi dopo che uscii dalla stanza, e che altrimenti avrebbe ucciso me e mia sorella, ebbi anche la fortuna che il disastro non si verificò di giorno quando ero a scuola a Longarone e che il lago non fosse al colmo, ma mancassero decine di milioni di metri cubi di acquasenza i quali il mio paese rimase in piedi».

A parlarne si commuove, il dolore è ancora vivo…

Sì, una tale tragedia non si dimentica. Quando il giorno dopo l’esondazione andai sul costone dove si vede giù la valle del Piave, e in particolare il paese di Longarone, provai un dolore immenso nel pensare alle centinaia di persone che conoscevo e ai miei compagni di scuola e agli insegnanti con cui ero assieme poche ore prima. Ricordo poi in particolare un giovane di 25 anni che la sera prima al bar del paese stava raccontando ai suoi coetanei che il prete voleva andasse a fare quattro chiacchiere da lui. Essendo però di turno alle 5 di mattina al cantiere della diga, disse che preferiva andare subito al dormitorio del cantiere. I suoi resti non furono trovati, così come quelli di quasi tutte le 40 persone che morirono del mio paese. Vedere chi conoscevo da anni sparire così è stato un dolore indescrivibile: mi ha sconvolto la mente e mi ha creato uno squilibrio che mi ha quasi portato vicino alla pazzia. Ancora oggi a parlarne mi viene il nodo in gola. Mi sono salvato forse per un pelo. Queste cose qui non sono mai state riconosciute, nessuno è mai venuto a dirci “vi abbiamo fatto un danno enorme, perdonateci”, oppure “scusate”».

Lei è uno dei pochi sopravvissuti, il tragico evento ha condizionato in parte la sua vita?

«Si. In un certo senso l’ha condizionata. Le autorità per decenni hanno creato una bolla di oblio per quello che è stato il disastro del Vajont. Dicevano che era stato un evento naturale e imprevedibile di cui le persone non avevano colpa e per cui non c’era nulla da rivendicare. In realtà non era così e lo abbiamo capito dopo, in particolare quando Paolini nel ‘97 ha fatto quel monologo che tutti consociamo con cui ha ridato luce e verità alla storia del Vajont. Nei decenni successivi, dopo aver fatto l’Istituto Tecnico a Belluno, sono diventato perito elettronico. Questo per quasi 40 anni mi ha portato in giro per il mondo, passando dalle coste dell’Oceano Pacifico agli alti paini dell’Iran, fino a Russia e Nord Africa, occupandomi di grandi costruzioni come impianti di raffinerie di petrolio, siderurgici, centrali termoelettriche e nucleari. Per anni però ogni volta mi vergognavo a dire che ero un siperstite del Vajont. Questo perché le persone mi guardavano come se volessi da loro qualcosa, e questo era terribile. Non è rimasta però rabbia, più che altro delusione che non sia stata fatta giustizia nel modo giusto. Con il territorio abbiamo fato pace, sono i luoghi dove siamo nati e ci sentiamo in armonia, anche se sono sconvolti e cambiati. Nonostante poi ci avessero sfollati da Casso, con la nostra tenacia insieme ad altri abitanti, siamo tornati per ricostruire le nostre case».

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