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Nel libro di Calivà le testimonianze degli sbarchi albanesi

Con un saggio sulla storia dell’Albania e 22 testimonianze raccolte di chi ha vissuto in prima persona gli sbarchi del 1991, lo scrittore Mario Calivà ripercorre la storia dell’Albania e gli eventi che hanno portato al grande esodo

Le migrazioni di un popolo sono sempre un disagio, fisico e soprattutto mentale, ma aiutano anche a riflettere sulla capacità di adattamento, crescita e integrazione di chi ha attraversato mari, confini e ostacoli per costruire un futuro migliore. Di questo parla il libro Gli sbarchi albanesi nei primi anni Novanta. Storie di vita” dello scrittore, giornalista, poeta e drammaturgo arbëresh Mario Calivà, edito da Besa Muci e presentato recentemente a Palazzo Franchetti, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti a Venezia, nell’incontro mediato da Mirela Tomassini dell’Associazione Arbëria, alla presenza della comunità albanese veneziana. Mario Calivà, nato nel 1983 a Piana degli Albanesi in Sicilia, nell’antica comunità arbëresh di cui fanno parte gli albanesi d’Italia, ha pubblicato diverse raccolte di poesie e libri, mentre dal 2012 porta in scena le sue opere teatrali in lingua arbëresh. Inoltre, ha lavorato presso la redazione romana di Rai Cultura. Il suo libro riporta indietro nel tempo alla riscoperta delle prime esperienze di migrazione albanesi e dei drammatici sbarchi, offrendo una visione storica e sociale del fenomeno. «Ho scritto il libro perché il viaggio compiuto dagli albanesi nel 1991 ripercorre idealmente quello degli arbëresh di tanti anni fa. – spiega Calivà. – Anche noi, seppur in diverse situazioni, siamo arrivati in Italia 500 anni fa prendendo la via del mare. Arbëresh e albanesi sono una cosa sola».

Il saggio storico

La prima parte il libro, attraverso un saggio storico, ripercorre gli eventi che hanno interessato l’Albania dalla dichiarazione di indipendenza del 28 novembre 1912 fino a poco dopo il grande esodo del 1991, dopo una delle più lunghe e spietate dittature. «La ricostruzione storica aiuta a contestualizzare e comprendere le interviste di 22 persone presenti nella seconda parte del libro, principalmente uomini ora 50enni, che nel 1991, quando avevano tra i 18 e 35 anni, a bordo delle navi della speranza dall’Albania arrivarono sulle coste italiane» dice, spiegando che le interviste le ha svolte online durante il periodo del Covid. Durante la dittatura in Albania vennero proibite le opere degli autori occidentali, le radio non trasmettevano canzoni straniere ed erano vietati i generi musicali come jazz e hard rock, i giovani non potevano portare la barba lunga e i giubbotti di pelle. Erano anni in cui non si poteva lasciare il paese: «Il regime se la prendeva direttamente con i famigliari di chi riusciva, in modo anche rocambolesco, a varcare il confine. Chiave di volta nella storia albanese è sicuramente il 1985, quando i fratelli Popa, perseguitati dal regime, stanchi della situazione e ridotti alla fame, chiesero rifugio all’ambasciata italiana.Poco più tardi, era il 1990, 4813 persone trovarono rifugio nelle ambasciate italiana, francese e tedesca. Da Durazzo vennero spostate a Brindisi e 800 di loro restarono in Italia. Quella fu la miccia che fece scaturire l’idea che una via nuova era possibile e che anticipò il grande esodo.

Il grande esodo del’91

A marzo del ’91 sei giovani tra i 22 e  26 anni furono i primi a lasciare clandestinamente l’Albaniagiungendo in Italia a bordo di una zattera. Da lì in poi iniziarono ad arrivare da Durazzo centinaia di persone. Arrivate a Brindisi, vennero aiutate dagli abitanti del luogo che offrirono loro cibo e vestiti, ospitandoli anche in casa. Ad agosto dello stesso anno oltre 10 mila persone arrivarono in Italia tra Bari, Brindisi, Monopoli e Otranto. Queste vennero accolte nello stadio della Vittoria a Bari in condizioni pietose e precarie. Furono lasciate sugli spalti, sotto il sole, senza un posto per fare i bisogni. La distribuzione dei viveri avveniva una volta al giorno tramite elicotteri che lanciavano panini sulla folla. «Si faceva leva sula fame e sulle condizioni precarie pur di convincere le persone a tornare indietro. E ci fu chi lo fece, dopo aver ricevuto una stecca sigarette o dei jeans» spiega Calivà. Nel libro, subito dopo il saggio storco, l’autore presenta proprio la testimonianza di 22 albanesi che hanno preso parte agli sbarchi del 1991: «Nella prima ondata, quando è stato il momento di partire, molti per non rivelare le loro intenzioni alla famiglia uscirono di casa come sempre. Le navi partirono da Durazzo colme di persone che non erano preparate per il viaggio e ci furono diversi incidenti a causa dell’inesperienza di chi era alla guida».

Le testimonianze degli esodati

Nei precedenti 50 anni di dittatura nessun albanese aveva lasciato l’Albania: «Quando arrivarono in Italia pensavano di conoscere il Paese grazie ai canali televisivi che però mostravano una realtà diversa, edulcorata. – spiega Calivà – Molti non conoscevano le banane e le mangiarono con la buccia, altri invecenon avevano mai visto le porte automatiche nei supermercati. Quando a due albanesi proposero di andare a lavorare come pastori in Sardegna, questi accettarono convinti gli venisse affidata in gestione una chiesa come avveniva ad un pastore protestante di un telefilm visto in tv. – e continua – Sono piccoli aneddoti che dimostrano gli effetti dell’isolamento. Tutte queste persone sono i nuovi arbëresh del 20esimo secolo. Sono fatti che le nuove generazioni non conoscono. – spiega ancora Calivà – Nella storia esistono eventi che vanno a caratterizzare la memoria collettiva, anche se da ciascuno è vissuta in modo estremamente personale. Nelle interviste ho trovato molta sofferenza, comune a tutti però era la voglia di ricominciare, di trovare un lavoro e di costruire una famiglia». Tra gli intervistati anche la storia di un medico che, arrivato in Italia, ha dovuto rifare interamente gli studi in medicina perché la laurea non era riconosciuta.

La testimonianza del calciatore Lork Cana

Alla presentazione del libro era presente anche il calciatore arbëresh Lorik Cana che, oltre che per la nazionale albanese, ha giocato per  importanti squadre, tra cui la Lazio in Italia. Cana da alcuni anni, attraverso la LC5 (Lorik Cana Foundation), sostiene e promuove lo sport e il patrimonio culturale in Albania, in Kosovo e presso gli albanesi della diaspora: «Provengo da una famiglia albanese e sono nato in una città del Kosovo al confine con l’Albania. – racconta – Nel ’90, come tanti abanesi della Ex Jugoslavia, Macedonia e Monte Negro separati dalla nostra patria, siamo diventati profughi non per nostra volontà, ma siamo rimasti fortemente attaccati all’Albania pur non potendoci tornare. Andai in Albania per la prima volta nel 2002» dice, raccontando che con la famiglia è cresciuto in Svizzera: «Diventando grande ho capito la storia della mia gente, che dopo oltre 50 anni non ha mai perso la sua identità albanese. Così ho iniziato a promuovere l’identità nazionale tramite lo sport. Tutta questa storia deve servirci per chiederci come vogliamo sia il nostro futuro».

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