L’ulivo è totem dell’identità, della cultura e della resistenza palestinese. E proprio l’ulivo, simbolo di pace per eccellenza, è il soggetto principale di “South West Bank – Landworks, Collective Action and Sound”, la mostra Evento collaterale della 60^ Biennale d’Arte di Venezia allestita alla Magazzino Gallery di Palazzo Contarini Polignac che presenta recenti opere create nella Cisgiordania da più di 20 artisti palestinesi e collettivi di diverse generazioni, quali: Samer Barbari, Adam Broomberg, Duncan Campbell, Rafael González, Isabella Hammad, Shayma Hamad, Chris Harding, Baha Hilo, Emily Jacir, Sebastián Jatz Rawicz, Sari Khoury, Benjamin Lind, Jumana Manna, Jasbir Puar, Michael Rakowitz, Adam Rouhana, Mohammad Saleh, Vivien Sansour, Andrea De Siena e Dima Srouji. L’esposizione, presentata da Artist + Allies x Hebron, in collaborazione con Dar Jacir fot Art and Research, offre un panorama di narrazioni frammentate e visioni personali che riguardano aspetti di sopravvivenza, inventiva, apertura, coltivazione e senso di comunità, rendendo esplicite pratiche determinate dalla resilienza, che attingono a conoscenze ancestrali e a gesti umili, ma anche a tecnologie contemporanee e a un simbolismo di grande impatto. Le opere si concentrano su quelli che normalmente dovrebbero essere oggetti, movimenti e suoni di prosperità, gioia e collettività, ma che durante la guerra israelo-palestinese acquisiscono tutti un nuovo senso di urgenza. Caratterizzata da un approccio poliedrico, con fotografie, video e performance che documentano aspetti della vita quotidiana e della resilienza in un contesto di conflitto, la mostra evidenzia le narrazioni storiche e la simbiosi tra vegetazione e natura in un ambiente mutevole. «L’intento è quello di esaminare la pratica artistica di un’area spesso trascurata dal punto di vista culturale» spiega il curatore Jonathan Turner.
Sono suggestivi “ritratti” in bianco e nero quelli degli ulivi che vivono precariamente sotto l’occupazione in Palestina, registrati su 60 lastre fotografiche di grande formato. “Anchor in the Landscape” è il progetto realizzato in 18 mesi dai fotografi Adam Broomberg e Rafael Gonzalez per celebrare la pianta dell’ulivo che procura sostentamento ad oltre 100.000 famiglie palestinesi. Questo, centro di tradizioni e identità, da tempo è oggetto di distruzione e furto. Dal 1967 800 mila ulivi palestinesi sono stati distrutti dalle autorità israeliane e dai coloni. Negli ultimi diciotto mesi Broomberg e Gonzalez hanno fotografato gli ulivi nei territori occupati della Palestina, il più antico dei quali è l’albero AlBadawi con più di 4.500 anni e che, rimasto intatto per secoli, ora sembra improvvisamente precario. Questi alberi fungono da punti fermi in un paesaggio storico e in trasformazione. Ogni ritratto di un ulivo testimonia quindi la presenza e la resilienza del popolo palestinese e il suo rapporto con la terra.
Mohammad Saleh presenta il blog del suo progetto della prima Fattoria urbana in collaborazione con i bambini del quartiere ai margini della strada della città di Betlemme, bruciata dall’esercito israeliano nel maggio del 2021. Un appezzamento di terreno vulnerabile esposto a granate, esplosivi, acqua di scarico, incendi e, naturalmente, ai normali agenti inquinanti della città negli ultimi decenni. È così che, da una parte silenziosa della terra, il blog di Saleh fornisce istruzioni pratiche per stabilire una cultura permanente e mantenere sane tecniche di giardinaggio per un cambiamento positivo. Non a caso “Ardawa”, questo il titolo dell’opera, fa riferimento alla possibilità di portare alla terra (Ard) la bonifica (Dawaa) a cui anela. In “PRESERVE, 2022-2024” l’artista Baha Hilo, con dei contenitori di olio d’oliva prende in considerazione gli aspetti sociali della coltivazione, la storia e il significato degli ulivi a Betlemme, insieme alle ramificazioni politiche e simboliche che essi devono affrontare oggi. Sari Khoury invece in “Grapes of Wrath” racconta della serie limitata di 3492 bottiglie di vino Philokalia, un vino pluripremiato che proviene da un vigneto antecedente al 1948 con rare varietà di uve autoctone, ora parzialmente distrutto dalle forze militari israeliane per realizzare una strada a servizio delle attività di insediamento nella zona di Betlemme.
Interessante poi il progetto di Emily Jacir e Andrea De Siena “Incontro tra La Pizzica e La Dabka, 2019”che, in una selezione di tre film realizzata in collaborazione con un’ampia rete di danzatori e musicisti tra il Sud della Cisgiordania e il Sud dell’Italia, mette in luce la comune eredità mediterranea tra i balli della Pizzica e della Dabka, la danza popolare tradizionale palestinese. In entrambe le tradizioni, l’aspetto simbolico-gestuale è legato al rapporto del corpo con la terra. La coreografia, basata su questi due repertori coreutici e sonori, ha sottolineato gli elementi direttamente connessi all’agricoltura e al lavoro della terra: i movimenti del polso che simulano il gesto della semina e i movimenti delle braccia utilizzati nella coltivazione. Un progetto che alla fine ha visto la realizzazione un nuovo pezzo di danza e una partitura musicale originale di cui la mostra ne dà testimonianza.
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