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Pezzullo: la psicologia dietro la buona integrazione

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Il Presidente dell’Ordine degli Psicologi del Veneto ospite in un incontro del Rotary Club Venezia Mestre

L’integrazione è una tematica molto complessa, che richiede diversi punti di vista anche solo per riuscire a immaginarla, figurarsi per realizzarla. «Una delle dinamiche che entrano gioco è proprio quella psicologica sia a livello individuale che collettivo – spiega Luca Pezzullo, Presidente dell’Ordine degli Psicologi del Veneto – il terreno di scontro è l’identità fra comunità ospitante e nuovi arrivati, ma questo è anche l’unico luogo in cui è possibile un incontro che possa costruire relazioni di fiducia e scambio, ma lo devono volere entrambe le parti in gioco e nei momenti di crisi, come quello che stiamo vivendo, i sentimenti di appartenenza si rafforzano creando difficoltà in questo senso».

La migrazione non è una questione recente, è qualcosa di insito nella natura umana, si tratta di un tema di lungo corso che percepiamo come recente perché in questo momento ci pone davanti a sfide nuove che richiedo soluzioni attuali. «Questa dinamica fra gruppi collettivi è un processo che richiede di imparare a conoscere anche un’identità diversa dalla propria – prosegue lo psicologo – ma di essere anche consapevoli da quale sia la propria, perché se per primi non si ha bene a fuoco le caratteristiche che si sentono come personali è difficile riuscire nella mediazione con quelli altrui, più un’identità è percepita come fragile e più è soggetta a riconoscersi minacciata da quelle con cui si confronta, quindi non può che generarsi opposizione e chiusura».

Veneto: da terra di migrazione a laboratorio di integrazione

«Nella Venezia del 1500 esistevano 140 casate di veneziani e 11 diforesti – racconta Pezzullo – gli stranieri erano una grande quantità fra greci, turchi, tedeschi e albanesi, con una percentuale del 10%, simile a quella odierna. La Serenissima gestiva in modo abile questa presenza attraverso pratiche dedicate ai nuovi abitanti per rinsaldare il percorso di inserimento nel tessuto cittadino, come il rinnovo periodico della cittadinanza, la definizione di quartieri dove inserirsi. L’accoglienza era subordinata a determinati principi: si costruivano contenitori identitaria che poi venivano integrati nel tessuto urbano».

«Se il Veneto oggi è molto rappresentativo della media italiana, con una popolazione per circa il 10% formata da immigrati – aggiunge lo psicologo – è stata per decenni una terra di emigrazione e adesso si trova a vivere questo paradosso di attirare stranieri, io stesso che sono originario di Varese ricordo quando i veneti si trasferivano da noi e venivano chiamati “immigrati”. Venezia, che negli anni ’20 del Novecento contava 20.000 abitanti, con l’industrializzazione ha subito un aumento vertiginoso arrivando fino a 200.000 residenti già negli anni ’70. Si tratta così di una popolazione che avendo ben presente nelle narrazioni famigliari la migrazione potrebbe essere una terra attenta a capire e facilitare l’integrazione, ma le dinamiche sono molto complesse anche a causa dei numerosi cambiamenti che avvengono in breve tempo, mettono in difficoltà la psiche umana che non riesce a gestirli».

Implicazioni psicologiche nei processi di integrazione

«Chi attiva un progetto migratorio spesso fatica ad accettare il fallimento di questa impresa – illustra il Presidente – chi parte è spesso chi ha più chance di farcela e ha sulle spalle le aspettative della propria famiglia, anche in termini di reddito. E’ un investimento, anche economico, che si fa per migliorare la condizione dell’intero nucleo, non solo la propria. Questo compito pesante di salvare il destino anche di chi resta a casa rende difficile il percorso soprattutto quando ci si scontra con realtà diverse dalle rappresentazioni non spesso corrette che si avevano prima di partire, insomma pressione e stress diventano elementi con cui convivere».

«Così spesso non è che l’immigrato non voglia integrarsi – prosegue – ma è la sopravvivenza la sua priorità, cercando di consolidare una situazione che si fatica a gestire. Per questo si ricercano conferme e appigli in una reciproca convalida in un gruppo di connazionali, secondo un profondo istinto atavico che riporta al concetto di branco. Il forte legame con la famiglia tiene poi l’identità saldamente ancorata alle tradizioni di origine, trasformando l’integrazione in un grande sforzo. La narrazione stessa che si fa a casa è edulcorata e censura i fallimenti, dipingendo una condizione spesso lontana dalla realtà. Perché lo si fa? Soprattutto per salvaguardare proprio l’identità personale, che spinge a fare di tutto per non essere tradita. Tanto che a volta i migranti sono i peggiori nemici dei nuovi arrivi, la fatica sopportata sulla propria pelle, porta a difendere quanto ottenuto, i veri cambiamenti avvengono con le generazioni successive».

L’antidoto è evitare lo scontro nei processi di integrazione

«Quando più comunità si confrontano – chiarisce Pezzullo l’integrazione passa inevitabilmente dal desiderio di condivisione da entrambe le parti e questo avviene con l’ibridazione a cui sono soggetti i figli più dei padri. L’unica ricetta è mettere insieme queste persone in un contesto culturale aperto e non ostile, anche attraverso servizi che facilitino lo scambio culturale e l’interazione, se non si creano occasioni di comunicazione, soprattutto attraverso una lingua comune, è praticamente impossibile pensare che tutto avvenga da sé e per fare questo servono anni. La recente pandemia ha portato a maggiore chiusura e timore verso gli altri, non è un caso che ci sia stato un aumento vertiginoso di richieste di supporto psicologico».

«L’integrazione è uno “sport di squadrabasato sul confronto – conclude – dove in realtà ognuno è portatore non solo di macro ma anche micro elementi culturali, che il nostro cervello ignora perché li dà per scontati, mentre si attiva quando ci troviamo di fronte a quello che non conosciamo. La normalità è quindi un concetto estremamente relativo e personale. Credo che le nuove generazioni, che hanno il compito di mettere in crisi le certezze delle precedenti, cambiando prospettive e sensibilità, possano favorire l’integrazione, vista anche la crisi dei corpi intermedi, che fluidifica l’identità». Christiano Costantini, Presidente del Rotary Club Venezia Mestre, che ha ospitato la relazione del Presidente Pezzullo, ha aggiunto: «Stiamo scrivendo una storia complessa di cui non abbiamo ancora la conclusione, l’unica certezza è che la conoscenza reciproca ci aiuta vivere con maggiore consapevolezza, per sostenerci in questo cammino che abbiamo davanti».

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