Affilato come la lama di un rasoio, essenziale, senza alcuna concessione alla retorica: potrei dedicare l’intera recensione allo stile del grande autore americano, mancato pochi mesi fa. E invece voglio concentrarmi sul contenuto di questo capolavoro, a mio modo di vedere al vertice della sua produzione – per quanto sia difficile trovare un’opera di McCarthy meno gradiosa delle altre –. La trama è a sua volta scheletrica: un padre e un figlio in uno scenario apocalittico, post nucleare, si trovano ad attraversare a piedi gli Stati Uniti devastati, tra le vestigia semidistrutte di un paesaggio rurale abbandonato, con rarissimi e pericolosi incontri all’insegna di un disperato istinto di sopravvivenza.
McCarthy, senza descriverli, fa sentire il silenzio, la desolazione e un incessante battito d’ansia e di paura. “Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato”: una narrazione che inizia così, se si ha l’ardire di affrontarla presagendo che potrebbe portarci alle lacrime, non può lasciare indifferenti. Potrei dilungarmi sul concetto di “strada” per la cultura americana e su come questo libro ne stravolga, rovesciandolo, lo spirito. Oppure tentare di affrontare i risvolti filosofici di questa sorta di parabola. Mi limito, invece, a suggerirvi di leggerlo. Leggetelo comunque, anche se avete già visto il film con Viggo Mortensen, particolarmente ben riuscito perché molto aderente al “passo” del romanzo.
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