
«Qualche anno fa, cominciai a scrivere di piccole e grandi emozioni vissute nei miei vari viaggi di solidarietà (…) Tempo dopo, nel rileggere quei racconti, ritrovavo quei volti, quelle voci che avevo chiuso in un cassetto della mia memoria. Erano voci trasportate dal vento del tempo. Le voci di quei personaggi e interpreti di vite vissute in contesti molto diversi tra loro, ma con un unico punto in comune, la forza e la gioia di vivere. Vivere nella maniera più difficile, ossia, semplicemente». Sin dal suo primo viaggio di solidarietà, il veneziano Giuseppe Dei Rossi non si è mai separato da carta e penna. Sognava di conoscere quelle terre e i loro popoli dai tempi delle scuole medie, quando Monsignor Giuseppe Bosa mostrava ai suoi studenti le foto delle sue missioni in Africa. «La mia immaginazione spiccava il volo e fuggiva, anche solo per qualche istante, lontani dai banchi», confessa Giuseppe, «e dopo anni, improvvisamente, la situazione si era ribaltata: non ero più di fronte a quelle foto, vi ero dentro».
«Non immaginavo che queste storie un giorno sarebbero diventate un libro. Men che meno che qualcuno avesse curiosità di leggerle», ammette Giuseppe, «quando un mio amico mi ha suggerito di stampare cinquanta copie, se pur perplesso, mi sono fidato. Alla fine dei conti, non ne è rimasta una. Anzi, abbiamo dovuto procedere con la ristampa». Un successo inaspettato quello di “Voci nel vento”, una collezione di appunti di viaggio raccolti tra Africa, India e Filippine, che si è trasformata in una volontà collettiva e spontanea di donarsi agli altri. «I lettori sono rimasti colpiti dai racconti e hanno deciso di contribuire alla mia missione in Africa», prosegue, «abbiamo accumulato oltre 2.000 euro in donazioni». Piccoli contributi che, sommati nel tempo, hanno fatto la differenza. «Offrire ad un bambino la possibilità di intraprendere un percorso formativo», osserva, «significa cambiare la sua vita per sempre». Come è stato per Ester. «La macchina da cucire è stato uno strumento magico per il suo avvenire», racconta, «ha iniziato a realizzare vestiti per la sua famiglia e per il suo villaggio per mettere da parte qualche soldo. Dopo qualche anno, quando sono tornato a trovarla, la sua quotidianità era rivoluzionata. Come anche l’aspetto di suo padre e della loro casa. Non indossavano più indumenti miseri e non erano più visibilmente sconfitti dalle avversità. Avevano speranza».
«Niente sarebbe stato possibile senza conoscere Sister Ponsiana», ammette, «ha intuito la mie intenzioni sin dal nostro primo incontro. Avevo capito che non ero venuto in Africa per essere solamente uno spettatore di passaggio, volevo fare la mia parte. Ha scritto un nuovo capitolo della mia vita». Giuseppe incontra Ponsiana ad una fermata dell’autobus a Dodoma, in Tanzania. Era vestita di azzurro e indossava un velo bianco. «Non sapevo che facesse parte dell’ordine delle Passioniste», ammette, «fu subito gentile e mi invitò nell’ostello di cui si occupava assieme alla sue ragazze, il Saint Mary Hostel». Al suo arrivo Giuseppe scopre un’accoglienza senza precedenti. «Organizzò una festa in mio onore. Tra sorrisi, danze e abbracci, si dimostrarono veramente delle affettuose e simpatiche canaglie», scherza, «in quella fresca sera di giugno, non avrei mai immaginato che sarebbe nato un così grande miracolo, una luce che avrebbe illuminato molte povere vite che vivevano nell’ombra della povertà. Evidentemente, quell’incontro era un disegno divino, un fuori programma che divenne la base per i successivi viaggi in terra africana».
«In questi anni di viaggio, ho fatto mio l’insegnato dell’arcivescovo Hélder Pessoa Câmara», spiega, «sosteneva che la missione fosse, soprattutto, aprirsi agli altri come a fratelli, scoprirli ed incontrarli. E, se per incontrarli e amarli sarebbe stato necessario attraversare i mari e volare lassù nel cielo, allora missione avrebbe significato partire fino ai confini del mondo». Con la «forza della fede», a fianco di Sister Ponsiana, Giuseppe è riuscito a finanziare le cure per salvare Exavery dall’elefantiasi e donargli una protesi per tornare a camminare, ad assicurare un percorso formativo alle gemelle Agatha e Magdalena ed assistere Bettina, malata e giovanissima vittima di uno stupro. «Sfortunatamente, spesso, il loro tempo è destinato ad essere brevissimo», confessa, «ma in quei bambini che vogliono un sorriso, che osservano, che piangono, che giocano, che vogliono la tua mano, che sperano, ho riconosciuto il ricordo del paradiso».
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