Volti di donne dagli zigomi incipriati, di uomini eleganti o segnati dal tempo, ma anche di gote arrossate di bambini. Alla Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro a Venezia la mostra “Il ritratto veneziano dell’Ottocento”, attraverso 166 opere, racconta il primo secolo dell’età contemporanea, sottolineando come spesso i profili ritratti parlino di un’assenza. La mostra, che resterà aperta fino al 1 aprile, a cura della direttrice del museo Elisabetta Barisoni e di Roberto De Feo, riprende titolo e tema dell’esposizione che fu inaugurata a Ca’ Pesaro esattamente 100 anni fa – era l’8 settembre del 1923 – a cura di Nino Barbantini, il primo direttore del museo. All’epoca Barbantini in meno di un mese volle proporre una delle prime retrospettive dedicate all’800 veneziano, proprio per “portare un poco di luce su un periodo della storia artistica della nostra città ingiustamente oscuro”, come lui stesso diceva. Nell’800 infatti Venezia era pervasa dal dolore a seguito della Caduta della Repubblica Serenissima, avvenuta nel 1797 con l’arrivo di Napoleone, del successivo dominino austriaco, e a causa dei tormenti che portarono fino all’Unità d’Italia. Un secolo scomodo e incompreso, considerato buio, in cui nacque il mito del ‘700 veneziano, proprio quando la città si guardava indietro verso quello che aveva perduto.
A distanza di cento anni, oggi la stessa mostra viene riproposta dopo due anni di lavoro per far riscoprire un secolo di cui ancora si parla troppo poco, che però fu popolato nel campo dell’arte da grandi artisti, che ora nuovamente potranno essere riletti con rinnovato interesse. Sono 166 in totale le opere riproposte di 52 artisti, di cui 25 vengono dalle collezioni dei Musei Civici Veneziani e una 60ina da privati, mentre le altre da musei ed istituzioni, con prestiti arrivati da tutto il Triveneto e in larga parte dalle Gallerie dell’Accademia, partner del progetto. Al secondo piano del palazzo nel percorso espositivo si susseguono opere di Favretto, Gavagnin, Grigoletti, Hayez, tra cui il capolavoro “Venere che scherza con due colombe (La ballerina Cecilia Chabert)”, Molmenti, Schiavoni, Stella e Tominz, compresi alcuni scultori come Luigi Ferrari, celebre il suo busto “Conte Giovanni Papadopoli”. «All’epoca Barbantini, in un momento in cui le avanguardie erano quasi al tramonto, perché spazzate via dalla Prima Guerra Mondiale, era convinto che l’arte doveva nuovamente riguardare il passato prossimo. Inoltre voleva ricollocarsi come critico d’arte al pari di critici come Ugo Ojetti e Margherita Sarfatti» sottolinea Barisoni. La mostra del ‘23, una delle prime dedicate all’arte del passato, ebbe grande successo, arrivando a 8 mila visitatori paganti in neanche un mese e mezzo: «Oggi – continua Barisoni – riproporre la rassegna a distanza di cento anni vuole essere prima di tutto un omaggio a Barbantini e alla sua lungimiranza».
«Nella mostra parliamo di un secolo forse tra i meno amati dai veneziani e dai veneti dopo la fine della storia della Repubblica. – prosegue Roberto De Feo – Barbantini non essendo d’origini veneziane aveva però una visione più distaccata». L’800 poi in generale non fu un secolo amato perché palava di morte: «La maggior parte dei ritratti in mostra raccontano infatti di un’assenza, tramandano le fattezze di persone che non erano fisicamente presenti, e questa assenza principalmente era dovuta alla morte. Il ritratto ad olio o il busto di un anziano è praticamente sempre di un defunto, i cui tratti erano ricavati dagli artisti dalle maschere funebri o da ritratti precedenti che venivano invecchiati. Ecco che le “fresche pennellate” di cui parlavano i critici altro non sono che quelle con cui gli artisti restituiscono vitalità al volto dei morti. – spiega De Feo – Un dato troppo macabro che genererà incomprensione anche a chi tra il 1915 e il 1918 di morte ne aveva vista già troppa». In mostra inoltre si riscoprono figure come quella dell’artista Lodovico Lipparini, che nel periodo di miserie dell’800 non piaceva perché rappresentava oggetti e vesti troppo lussuose come nel ritratto di “Signora” o quello della “Contessa Elena Vendramin Calergi Valmarana”.
Delle 241 opere che aveva portato in mostra Barbantini ne sono state ritrovate 140, perché in parte andate distrutte o disperse, ma molte sono ancora quelle dall’ubicazione sconosciuta che devono ancora essere rintracciate. Tra queste, in particolare, l’opera “Il duca Guglielmo Bevilacqua” di Luigi Galli (Milano, 1817 -Roma, 1900), un olio su tela di 220×150 cm realizzato nel 1852 di cui si sono perse le tracce. «L’opera tra i quadri simbolo della mostra del ’23 è molto cara al museo in quanto proprio tra le sue mura fu ritratto il duca, fratello di Felicita Bevilacqua che lasciò il palazzo di Ca’ Pesaro alla città perché fosse destinato all’arte. – dicono i curatori – Chiunque ora ne sia in possesso speriamo venga raggiunto dal nostro appello». Per la realizzazione della mostra i curatori hanno aggiunto una trentina di nuove opere, pressoché inedite, certi che se Barbantini al tempo le avesse incontrate le avrebbe scelte per esporle. Infine, una 40ina sono le opere che sono state restaurate per l’occasione, mentre 11 sono quelle a cui, grazie agli studi e alle ricerche condotte, è stato possibile conferire nuove attribuzioni, tra cui il ritratto de “Il pittore Ippolito Caffi” precedentemente considerato un autoritratto, ora scoperto essere di mano di Cherubino Cornienti. Otto quadri poi di Grigolettisi è scoperto in realtà essere di mano di Lipparini, mentre altre opere di Politi sono state invece attribuite a Natale e Felice Schiavoni. Una mostra che grazie ai nuovi studi e alle scoperte emerse aprirà la strada a future monografie.
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