Dall’amore per Venezia alla passione per l’Oriente. Ha inaugurato questo pomeriggio, venerdì 29, nella sede di Palazzetto Tito della Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia, la mostra antologica dedicata nel centenario dalla nascita all’artista Saverio Barbaro (Venezia, 1924 – Verona, 2020) dal titolo “1924-2024 Cento anni di Saverio Barbaro”, visitabile fino al 5 gennaio, a cura dello storico dell’arte Marco Dolfin, nonché direttore artistico della Fondazione intitolata all’artista veneziano che ha promosso l’esposizione. La Fondazione Bevilacqua La Masa si conferma sensibile a celebrare artisti locali, oltre ad aprire anche le sedi espositive ad artisti internazionali come il pittore russo Andrey Esionov, ora presente nella galleria di Piazza San Marco (leggi qui). Sono quaranta le opere che in mostra ripercorrono l’evoluzione stilistica del maestro della pittura veneta del ‘900, che più volte ha anche partecipato alla Biennale d’Arte, tra quadri iconici ed inediti che vanno dalla giovinezza, partendo dai dipinti degli inizi degli anni ’40, alla piena maturità artistica degli anni ‘70, fino alle sue ultime creazioni, realizzate poco prima della scomparsa nel 2020. Nella prima sala spicca l’opera “Primavera Asolana” con cui Barbaro esordì nel 1948 in mostra proprio alla 36a Mostra Collettiva dell’Opera Bevilacqua la Masa, tenutasi nelle sale di Palazzetto Tito. «Il dipinto, ritrovato solo recentemente in una collezione privata, viene per la prima volta riproposto al pubblico. Probabilmente non era più stato esposto dai tempi della mostra alla Bevilacqua» precisa il curatore Marco Dolfin. Nella stessa sala però è presente anche una chicca: l’opera “Natura morta”, realizzata nel ’43 e riscoperta di recente, attesta che il maestro aveva iniziato a dipingere ben prima della sua prima esposizione al pubblico» spiga Dolfin, dicendo che l’opera è stata trovata nell’archivio della Fondazione Saverio Barbaro nella villa di Montorio nel veronese. «Queste due opere sono emblema di come l’artista nel giro di cinque anni cambi modo di dipingere ispirandosi alla pittura di Gino Rossi – continua Dolfin – Qui Barbaro mostra un colorismo acceso dalle tinte forti e una pittura dal tratto più rapido» Esempio chiaro è l’opera di atmosfera lagunare “Case a Burano” del ’49, dove compaiono colori che poi diventeranno qualche decennio più tardi diventeranno nella pittura del maestro.
Con le opere “Giardini a Torcello” del ‘49 e ‘52 si nota l’inflesso che la pittura post impressionista ebbe su Barbaro. In questo periodo infatti realizza nature incantate e magiche in chiave naïf, con un’alterazione prospettica dell’architettura data da una pennellata gestuale e rapida. Nel ’52 Barbaro vince una borsa di studio e soggiorna a Parigi per quasi un anno, aprendosi alla pittura internazionale. «Inizia per lui un periodo in cui compare una cera malinconia. Nei suoi dipinti non c’è la gioia di vivere parigina, ma ricerca scorci particolari» spiega il curatore. Proprio in questa sezione, una veduta che si pensava fosse di Marghera invece è stato confermato essere uno scorcio di “Fabbriche a Parigi” del 1953. In quegli anni Barbaro viaggia molto nel nord della Francia e resta affascinato dalla Bretagna, dai paesini tranquilli del Mare del Nord: «Il suo intento, anche se il tratto pittorico ormai è cambiato, è di ripercorrere i luoghi visitati da Gino Rossi» sottolinea Dolfin, dicendo che si reca anche in Olanda e ad Amsterdam e resta ammaliato dai colori dei mulini a vento.
L’opera “Moulin de la Galette” del ‘53 anticipa il periodo del realismo esistenziale in cui i colori si spengono. La sala dedicata alla produzione degli anni ‘60 mostra l’opera inedita, proveniente da una collezione privata, “Capra” del 1958 realizzata con colori pastosi. Presente in mostra anche l’iconico dipinto “Bestia atomizzata” del 1060, in cui il tema dell’animale morto e del sanguinamento diventa centrale e in cui il colore si perde a favore della drammaticità della pittura. In questa sala dove sono esposti i dipinti più espressionisti si trova anche l’opera “Violenza” del ’66, che mostra una donna appesa e legata come se fosse prigioniera. A questo grande dipinto di denuncia sociale si accostano anche una serie di disegni a china su carta, esposti già in alcune mostre collettive della Bevilacqua. «Sono grafiche dal tratto nervosoche si ispirano ai capricci di Goya. Opere dove i corpi delle donne sono disumanizzati, rappresentati con seni rattrappiti e ventri rigonfi», dice Dolfin, citando come esempio il disegno “Il denaro” del 1965. «In Fondazione ci sono tante altre opere in cui emerge il tema della violenza che mettono in scena stupri e maltrattamenti che però non abbiamo potuto esporre per problemi di conservazione».
Grazie ai viaggi in Medio Oriente e in Africa degli gli anni ’70, Barbaro ben presto ritrova una pittura solare e ricca di colori. «In questo periodo il maestro si apre nuovamente al colore mediterraneo e quello dei paesaggi desertici. Cambia radicalmente tavolozza e realizza paesaggi giocati su tonalità calde» continua Dolfin, spiegando che questo modo di dipingere lo porterà avanti fino alla morte. Un’impronta, questa, che si fa chiara in opere che si caratterizzano per la forza suadente del colore tra cui “Interno con tenda” del 1983 o quelle in cui riscopre la natura morta come “Ulivo” del 1972, già in collezione del noto critico Paolo Rizzi. Molti sono anche i dipinti in cui ritrae i volti delle donne che incontra nei villaggi mediorientali o del Nord Africa, icone di bellezza a temporali e primitive dalle labbra carnose che emergono nei contrasti dei fondali. In particolare, Barbaro si concentra poi nel realizzare vedute di paesaggi berberi e dettagli di porte e finestre che si affacciano sul mondo che tanto lo affascina, fino ad essere soprannominato l’orientalista. Ad aprire e chiudere la mostra, l’opera posta sulle scale d’ingresso “Porta bianca”, l’ultimo dipinto che Barbaro dipinse nel 2020 a pochi mesi dalla morte: «Un’opera inedita in cui risulta evidente come il pittore, ormai 96enne, si sia aiutato con le dita per stendere il colore, nonostante il dipinto resti pregno di forza poesia coloristica» sottolinea infine il curatore. La mostra a Palazzetto Tito conclude le iniziative per il centenario dalla nascita di Barbaro: «Avrebbe voluto esporre ancora una volta qui a dove tutto per lui è iniziato. Abbiamo voluto onorare il suo desiderio. – ha spiegato Roberto Bertuzzi, Presidente della Fondazione Saverio Barbaro da cui provengono la maggior parte delle opere presenti in mostra, eccetto una decina in prestito da collezioni private – Compito della Fondazione, che custodisce oltre 2000 opere, tra dipinti, disegni, sculture, incisioni e ceramiche del maestro, è quello di continuare a proporre attività affinché la sua arte venga ricordata, in particolare a Venezia».
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