Non nacque a Venezia ma scelse la città come luogo d’elezione in cui mettere radici profonde, come quelle dei grandi alberi che dipingeva. Sono passati cento anni dalla nascita di Luigina De Grandis (1923-2003), grande colorista e artista tra le più appassionate dell’arte veneziana del ‘900, la cui memoria è custodita dall’Archivio De Grandis Marabini (leggi qui). Dal carattere forte e determinato, De Grandis nasce a Spinimbecco di Villa Bartolomea, paese della bassa padovana. L’ambiente di campagna in cui vive, legato alla visione della natura e del lavoro nei campi, sarà poi un punto di forza e di ispirazione per la produzione dell’artista. Dopo il diploma ottenuto nel ‘42 alle scuole magistrali, riceve il suo primo incarico di insegnante in Val Badia, nel pieno della Prima Guerra Mondiale. L’esperienza le piace, anche se capisce che la sua strada in realtà è la pittura.
Inizia a dipingere da autodidatta paesaggi in contatto diretto con la natura. Le prime opere, in cui ritrae i propri famigliari nelle atmosfere paesane, sono dedicate alla figura. Solo successivamente si dedicherà al paesaggio e alla natura che poi saranno dominanti nella sua produzione. Così nel ’43, a vent’anni, decide di riprendere gli studi per poi poter frequentare l’Accademia. La famiglia non comprende questa scelta e infatti, pur non guastando i rapporti, non la supporta economicamente. Dopo aver superato nel ‘45 l’esame alla Scuola d’arte, si trasferisce a Venezia in “una cuccetta”, come la chiama lei, città dove poi risiederà per tutta la vita. Qui si iscrive all’Accademia di Belle Arti, dove ebbe come insegnate Bruno Saetti, che considererà De Grandis tra le sue allieve migliori. Nel ’46, giovanissima, mentre era da poco iscritta all’Accademia, tenne la sua prima mostra ufficiale, intraprendendo un cammino che la porterà ad esporre alla Biennale d’Arte di Venezia negli anni 1950, 1962, 1970, 1986 e alla Quadriennale di Milano negli anni 1951 e 1955. Nel ‘53 si sposa con l’artista Mario Marabini (leggi qui) dal cui amore l’anno successivo nasce la figlia Chiara. Con il marito parla e discute d’arte, istituendo un piccolo cenacolo insieme al cognato Ottone Marabini e sua moglie Valeria Rambelli, anche loro artisti.
L’artista, che nel suo studio usava dipingere per terra, si caratterizza per una pittura libera con accostamenti tonali e nessun segno. Negli anni ’50, in cui raggiunge il successo, si contraddistinse per un’esplosione del colore. Con questo infatti rappresentava le emozioni seguendo l’idea kandinskiana del colore come espressione dei sentimenti e guardando la natura tendendo man mano ad astrarla, celebre la sua opera “Bosco Blu”, che esprime in una sinfonia di colori. De Grandis però non si è mai definita un’artista astratta, semplicemente voleva cogliere la parte più lirica e poetica delle cose: “Se si vuole dire che io sia astratta, e non lo sono, io sono un’astratta lirica e non cerebrale” diceva. Commuove il dipinto in absentia “Alla memoria” in cui, in un blu simbolico che riprende un’atmosfera sospesa shagalliana, De Grandis evoca la figura del marito, da poco scomparso, scegliendo come soggetto principale la sua scultura “Abbandono” del 1961. Dopo la morte del marito, avvenuta in un incidente stradale nel ’62, resta sola con la figlia di 8 anni e nel ‘64 per sostenersi inizia l’attività di docente all’Istituto d’arte di Padova prima e di Venezia poi. Durante gli ultimi anni di insegnamento con la collaborazione di alcuni suoi allievi, e con la consulenza di esperti fisici, chimici e psicologi della Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova, termina la scrittura del volume “Teoria e uso del colore” che, edito da Mondadori nel 1984, ebbe molto successo soprattutto all’estero.
De Grandis non ragiona come una pittrice astratta ma come un’artista che ama e osserva la natura in continua mutazione, che poi riesce a trasformare in sentimento. Negli anni ’60 infatti emerge significativamente il tema dell’albero come sinonimo di vita, che diventa dominante nelle sue opere. In una sorta di metonimia poi dal tutto passa alla parte, concentrandosi quasi esclusivamente sul tema della foglia, che sviluppa fino agli anni ’70 in molti modi e forme. Un elemento che per lei, dal punto di vista simbolico, esprime la metafora della caducità della vita. In un rapporto tra musica e pittura, altri suoi elementi simbolici sono poi l’idolo con cui recupera una dimensione religiosa e la clessidra per riportare l’immagine del tempo che svanisce. Ma guarda anche al teatro, tra parola e poetica, e realizza opere nella tecnica del collage. Ciò che la contraddistingue come artista in quegli anni sono le sperimentazioni con terre e pietre all’interno dell’impasto pittorico e i colorati foulard che l’artista realizza negli anni ’70, sconfinando nel campo della moda. Inoltre costante è la collaborazione con gli artigiani veneziani, come quando realizzò per la XXXV Biennale d’Arte di Venezia del 1970, in collaborazione con il maestro vetraio Luciano Dall’Acqua, “Elemento policromo in vetro”, ora esposta in mostra in Sala San Leonardo a Venezia (leggi qui). Infine, colpisce l’ultima opera, rimasta sul cavalletto, che non è altro che una negazione del colore. L’artista, che ha sempre avuto grande amore per le cromie, qui sembra invece presagire il momento estremo dove i colori non ci saranno, anche se una sottile linea bianca traccia un percorso, come se volesse andare oltre il nero, oltre il mistero.
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